Il valore non percepito nell’economia della conoscenza digitale

Sei blogger diciamo da 9 anni.

Non vuole dire niente: aprirsi un blog è molto più facile ed economico che cambiare pettinatura quindi potenzialmente possiamo essere tutti blogger.

Sei blogger diciamo da 9 anni, lavori nel web diciamo da 12 anni, hai una laurea diciamo in Lettere Moderne e un Master diciamo in Comunicazione e Informatica.

Hai – soprattutto – competenze che ti sei guadagnata sul campo, studiando ogni giorno, mettendoti in gioco, credendo nell’economia dello scambio e del dono di quello che – in progress – hai imparato in questi anni. Ti occupi di strategie digitali, a volte anche per clienti importanti. In Rete sei abbastanza conosciuta. Per strada, qualcuno, delle volte, ti ha fermata: “Scusa, ma tu per caso sei Panzallaria?”. Robe imbarazzanti, che se lo avessi immaginato nel 2005 che i blogger sarebbero diventati nel tempo autorevoli, forse avresti riflettuto un attimo in più prima di scegliere questo nickname (che ti piace tantissimo e allora bisognava sceglierli così, criptici e lontanissimi dalla propria reale identità). Vieni citata in articoli, i giornali ogni tanto ti chiamano e ti chiedono interviste e anche foto e una volta sei “persino” andata a Raitre, mica pizza e fichi.

A te interessa prevalentemente usare il digitale in maniera efficace, insegnare ad usare il digitale in maniera efficace. Ti interessa continuare a imparare ma più di tutto vuoi che quello che fai e che credi di fare con una certa serietà, forse anche abbastanza bene, sia il tuo lavoro, sia la tua fonte di sussistenza.

Quando incontri un vecchio professore del liceo, uno che fino a qualche anno fa – se lo fermavi –  ti scambiava sempre per la tua compagna di banco e non aveva precisamente idea di chi fossi, ti dice che ti ha visto sul quotidiano della città un paio di volte. Ti ferma lui. Si complimenta: “Mi fa piacere lei abbia fatto tutta questa CARRIERA! Io non ci capisco niente ma vedo che è diventata FAMOSA!”.

Su Facebook ti contattano sconosciuti che vorrebbero sapere “il tuo segreto”, che vorrebbero fare il tuo lavoro.

Tu combatti con aziende che ti chiedono di scrivere un post in cambio di una prova prodotto (queste cose non le fai, non ti interessa), con clienti che non sempre capiscono il valore del tuo lavoro (“Ma come, tu non ti diverti a stare su Facebook?” sottointeso “E vorresti pure essere pagata bene?”) ma in qualche modo riesci ad arrivare a fine mese.

Inventi, crei nuove opportunità, studi, programmi corsi, scrivi libri che non ti faranno diventare miliardaria ma aumenteranno la tua autorevolezza, continui a condividere storie e saperi (di altri e anche tuoi).

Quando qualcuno – anche solo ironicamente – sottolinea la tua “fortuna” e insinua che sicuramente tu sei ricca, ti viene da sorridere: non tutti lo sanno, ma con i followers su twitter non si compra il pane.

E per fortuna!

Non tutti lo sospettano, ma andare sui giornali non significa PRECISAMENTE essere diventati ricchi.

Tu vorresti SOLO che il tuo lavoro, quello che fai e che SAI fare bene e che TI DICONO tu faccia bene, venga VALORIZZATO per quello che vale.

Non ti importa guadagnare cifre impressionanti (mica sei una fashion blogger, tu…), non ti importa nemmeno vivere come una vip. Andare agli eventi per incontrare le persone ti piace, ma in cuor tuo sai che è sempre una lotta tra la tua parte “social” e quella più timida, quando entri e hai solo voglia di sederti in un angolino, perché hai paura che se saluti qualcuno non ti riconosca o che se qualcuno ti salutasse, tu non riconosceresti lui e poi penserebbe che te la tiri, mentre invece sei solo una con la testa molto tra le nuvole. A te importa fare il tuo lavoro. Come per esempio la formazione. Sei brava quando parli alla gente. Riesci a toccare corde. Lo sai. Hai quasi 41 anni e certe cose le hai capite.

Vorresti fosse questo che si trasforma in pane e magari in un vestito se si riesce, magari una gita domenicale con la famiglia. Vorresti fosse questo. Insieme a quello che scrivi.

Te lo dice anche chi ai tuoi corsi ci è venuto che sei brava. Te lo dicono le persone che ti seguono sui social o sul blog che a un tuo corso ci verrebbero a occhi chiusi.

Poi succede che i corsi li fai.  A volte decidi di investire anche in workshop gratuiti di un’ora. Per promuovere il tuo lavoro, per promuovere un bellissimo progetto che sta portando avanti un’amica e al quale anche tu presti la tua competenza professionale. Lei per quella competenza professionale ti paga, anche se è una start up e di soldi non è che ce ne siano tanti, anche se a leggere start up viene fuori tutto un immaginario da Silicon Valley che fa credere ai più che anche lei sia ricca. Ma non è vero. Start up – specie in Italia – significa credere in un’idea e investire tempo e lavoro per trasformarla in qualcosa che ci dia l’opportunità di viverci.  Start up significa: decido di avere coraggio e fare un sacco di sacrifici perché ci credo! E niente, decidi di promuovere gratuitamente quel progetto e di andare a tenere un workshop gratuito anche per le partecipanti per lanciare un corso in e-learning (che ti è stato pagato) durante una fiera, in una città che – per carità – non è distante, ma non è la tua. La gente si iscrive. Sei contenta.

Il workshop andrà bene, riceverai tanti complimenti. Ma, prima di iniziare, qualcuno si lamenterà. Per arrivare al tuo workshop gratuito dovrebbe pagare l’ingresso alla fiera (8 euro). Ci sono proteste all’entrata. “Ma come? Avevate detto che era gratuito!”. In effetti il workshop lo è, ma è ospitato da una Fiera, è segnalato chiaramente e per entrare in Fiera occorre acquistare un biglietto.

8 euro. 

Per un workshop gratuito di un’ora di una persona che “presumo” riteniate autorevole.

8 euro.

Li spendo per un pranzo al bar, durante la pausa.

8 euro.

Per carità, tu non vuoi fare i conti in tasca a chi viene al tuo workshop, ti senti anche in imbarazzo. Per un attimo. Poi ci pensi.

Se qualcuno non ritiene nemmeno che tu valga quei soldi, che le tue competenze valgano quei soldi, cosa ci stai a fare qui? Quale valore viene dato al tuo lavoro?

Tra le persone che hanno alzato “vibranti” proteste contro il pagamento del biglietto, ce ne sono di certo che vorrebbero mantenersi facendo il tuo lavoro: come pensano esattamente di guadagnare da questo tipo di economia digitale, se loro per prime non sono disposte a investire 8 euro?

Se il lavoro di chi si occupa da tanto tempo di comunicazione digitale ed è considerata autorevole online non vale nemmeno 8 euro, che senso hanno parole come “famosa”, “carriera” e “vorrei essere come te”?

No. Non credo potrete diventare mai come me.

Io 8 euro per sentire qualcuno che stimo e che credo possa insegnarmi qualcosa che mi fa crescere professionalmente le spenderei senza battere ciglio e mi bacerei pure i gomiti.

COMMENTA CON FACEBOOK
5 commenti
  1. Angela dice:

    Ciao Francesca,
    confesso che, forse per essermi iscritta solo all’ultimo momento e distrattamente, non avevo letto che il workshop si sarebbe tenuto all’interno di una fiera, che, giustamente, si faceva pagare il biglietto.
    In realtà, forse, le cose andavano scritte in maniera differente e sicuramente la prossima volta mi documenterò prima e meglio.
    Sono rimasta basita, perché quella fiera non mi interessava e sono venuta esclusivamente per vedere te.
    E avrei pagato molto volentieri otto euro o anche 10 o quello che era necessario perché sei bravissima, competente e dai valore alle cose che dici e come le dici.
    Ecco, magari la prossima volta si poteva fare pagare il biglietto comprensivo del workshop all’iscrizione.
    🙂

    ciao
    Angela

  2. simona dice:

    e infatti io mi sono iscritta al corso che dovresti tenere al Multiplo a Cavriago e pensavo che costa davvero poco … però non vale aumentare il prezzo adesso eh 😉

  3. mammamsterdam dice:

    uh, come la conosco la stessa identica situazione. Effettivamente la cosa più difficile al mondo è managing expectations e concordo su una cosa sola: la prossima volta datevi un prezzo comprensivo di ingresso fiera che a far le cose gratis si perdono tempo e sapone. Ti dirò di più, andate a parlare con la fiera dicendo: per chi segue il mio workshop voglio pagare un ingresso di 4 euro, a voi conviene perché vi porta comunque gente che solo per la fiera non sarebbe mai venuta e io sono un interlocutore che vi procura un tot di ingressi. Poi il workshop lo pubblicizzavi chiarissimamente come: ingresso 12 euro comprensivo di ingresso fiera del valore di 8 euro. Così si fa, così fanno tutti quelli che conosco che non sono capaci di fare le cose che faccio io ma che sanno tirar su soldi a chiacchiere, cos`i mi scordo sempre di fare io. e mi sa anche tu.

  4. Virgilio dice:

    Cara Francesca, come hai toccato con mano propria, oggi non esiste più una capacita di ascolto, ne di lettura.
    Nei media, come per strada e sui propri palmari, tutti a ciarlare e ribattere senza ascoltare cio’ che prima gli si è detto.
    Il messaggio era chiaro: workshop gratuito all’interno di una fiera, dunque va pagato l’ingresso.
    Perciò esistono differenti modalità di comunicazione, sempre più professionalizzate, o meglio da professionalizzare: il narratore, lo storyteller, il blogger, il giornalista, l’opinionista, il saggista, il pubblicitario, il grafico, il designer, il comunicatore istituzionale e quello commerciale, il formatore e l’insegnante, il comunicatore politico, l’addetto pr. Ancora altri ne stiamo scoprendo e ne scopriremo.
    Forse un eccesso di specilizzazioni, a scapito di una vision complessiva del ruolo, che si traduce alla fine negl’interrogativi: cosa devo fare conoscere, cosa conviene che si conosca, come, a chi, per ottenere cosa?
    Cordialmente.

I commenti sono chiusi.