Truth Chiselled Into Rock

La responsabilità delle nostre parole, l’abito che indossiamo

Una donna viene uccisa  e il suo cadavere rimane occultato per più di 10 giorni  dall’uomo che ha respinto e che considerava solo un amico: alcuni giornali lo definiscono un “gigante buono” e parlano di “equivoco” che ne ha scatenato il gesto assolutamente non premeditato. 

L’ex inquilina dell’appartamento in cui vivo viene a ritirare della posta, le chiedo della nuova casa e senza vergogna mi risponde che sta bene perché è un palazzo tranquillo, sono tutti italiani (e questo lo ripete 3 volte) e non c’è nessun extracomunitario.

Le lancio un’occhiataccia e si giustifica dicendo che lei è meridionale, che non è razzista ma che un palazzo tranquillo è meglio.

Cosa hanno in comune tra loro questi due eventi? 

In entrambi i casi c’è una narrazione e c’è una precisa scelta delle parole. 

Il giornalista che sceglie di nominare un omicidio mettendo l’accento sulla presunta bontà di chi lo ha compiuto e sottolineando – ce ne fosse bisogno – che lui era innamorato e lei no, che lui andava tutti i giorni a prenderla dal lavoro e lei sfuggiva ai suoi baci scendendo in fretta dall’auto, sta costruendo una drammatizzazione della notizia che punta ad assolvere – almeno in parte – l’assassino. 

L’ex inquilina che insiste sull’italianità del suo vicinato e non pensa nemmeno per un attimo di fare un discorso xenofobo e – soprattutto – non si domanda se di fronte abbia una xenofoba come lei, sceglie consapevolmente di attribuire valore a elementi di chiusura che valore non dovrebbero avere. 

Siamo sempre responsabili di quello che diciamo e scriviamo

Il modo in cui nominiamo gli eventi e diamo corpo alle narrazioni impronta il messaggio che vogliamo dare.

Sempre.

Non soltanto chi si occupa di comunicazione e media ha un preciso dovere riguardo alle parole, ma tutti quanti, oggi, siamo corresponsabili della cornice con cui definiamo le cose. 

I discorsi d’odio improntano d’odio il quotidiano, le definizioni che sviliscono gli altri li spersonalizzano e più spesso ripetiamo una notizia falsa, condividiamo messaggi violenti (anche solo per scherzo), più siamo coinvolti nella normalizzazione del male, quella banalità di cui scrive Hannah Arendt riguardo agli ex nazisti e che – provocatoriamente – allargo anche a chi banalizza il linguaggio. 

Anche quando sviliamo noi stesse, i nostri corpi, le nostre relazioni, ci stiamo dicendo delle cose e le stiamo dicendo a chi ci sta intorno. 

La ginnastica della complessità 

Sono stata a Mantova al festival della letteratura dove ho avuto il piacere di ascoltare Francesca Mannocchi giornalista che ha scritto di Libia e trafficanti di uomini.

Ha inanellato perle di pensiero con modi pacati, gentili e una ammirevole capacità di non essere autoreferenziale.  

L’unica narrazione possibile è la narrazione della complessità

Mannocchi ha insistito molto sul ruolo delle PAROLE che sono AZIONI e in questo concetto la sento affine: quello che scriviamo e diciamo ha un peso specifico e dobbiamo sempre scegliere cosa e come fare. 

Che tu sia uno scrittore o che tu sia una persona che comunica nel suo quotidiano, oggi disponi di così tanti mezzi di comunicazione diretta che hai alcuni doveri:

  1. responsabilità: condividi solo quello di cui sei sicuro o informati e approfondisci prima di farlo 
  2. competenza linguistica: scegli le parole, usa un linguaggio generativo, sii preciso
  3. capacità di metterti in discussione: a volte non la pensiamo allo stesso modo ma possiamo confrontarci e imparare gli uni dagli altri. 

Le parole sono AZIONI sociali, civili e professionali: il modo in cui scegli di scrivere di te, del tuo mondo, impronta l’idea che gli altri si faranno di te. 

Il modo in cui scegli di parlare di te, del tuo mondo, delle tue idee è l’habitus, il vestito che ti infili e dice chi sei. 

Ah, la ex inquilina del mio appartamento aveva murato – costringendola dietro a pesanti tende scure sempre chiuse e tapparelle abbassate – la finestra che porta più luce al mio angoloB.

I piccioni si appoggiavano sul davanzale e per anni lo hanno usato come wc, creando problemi anche a chi viveva di sotto e subiva il guano che colava. 

Una metafora interessante: chiusa nel suo mondo, senza farsi penetrare dalla luce esterna, quello che è certamente un limite suo alla lunga diventa anche un problema per gli altri. 

Si chiama responsabilità. 

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