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20 maggio 2013: un anno dopo

Stavo dormendo. A un certo punto ho sentito il letto che si spostava. Stavo sognando e per un attimo ho pensato che succedesse solo nel mio sogno. Poi ho sentito Tino che con la voce alterata dal sonno urlava alla gatta di smettere. Mi sono svegliata di soprassalto. Tremava ancora. Anche Tino si è alzato. La gatta era già scappata a nascondersi. Ci siamo diretti di corsa in salotto. Il lampadario ballava. Ho detto “Il terremoto!” ed era già tutto finito. Ho guardato mia figlia, nella sua stanza. Dormiva. Avevo il cuore che batteva forte. Tino ha detto accendiamo la televisione. La televisione trasmetteva programmi notturni. Abbiamo guardato l’orologio, erano le tre. Ho aperto l’IPAD, ho aperto Twitter e su Twitter molte persone erano sveglie. Come me. Era stato il terremoto. Era domenica. Man mano che le informazioni si rincorrevano, che leggevamo tweet di altre persone, in provincia di Modena, a Ferrara, dalla nostra città, cominciavamo a capire cosa stava succedendo.

Non avevamo paura. Non ancora. Forse è un caso isolato.

Poi al pomeriggio la terra ha ripreso a tremare, ma più piano. Ogni scossa io guardavo il lampadario. Qualcosa si stringeva nella gola, ma ci avevano detto che l’epicentro era nelle campagne tra Modena e Ferrara e quel nodo era un misto di sollievo e di angoscia per quelli che abitavano lì. Anche per tanti amici o conoscenti.

Si fermerà bene, pensavamo tutti, a scuola ci hanno insegnato che viviamo in una regione sicura, dove i terremoti non arrivano. Eppure, nel giro di un lampo abbiamo preparato uno zaino con qualche cosa dentro, i vicini quella notte erano scesi in strada, noi no, ma abbiamo una bambina. Occorre che stiamo pronti.

Lo zaino è rimasto in corridoio: un caricabatterie, l’ipad, il pigiama e un cambio per frollina, un cambio per noi. Una coperta, anche. Le chiavi della macchina.

Nei giorni successivi tutto sembrava essersi calmato: ogni alito di vento ci faceva sussultare, c’era qualche scossa che – dicevano- era di assestamento. Si cominciavano a contare i danni nell’Emilia colpita al cuore, si cominciavano a sentire le storie.

Io mi sentivo in colpa. La colpa di essere scampati, il sollievo di essere scampati. Avevamo individuato il muro portante di casa e spiegato a nostra figlia che se sentiva tremare doveva mettersi lì sotto, ascoltare mamma e papà e non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene.

Una settimana dopo, che c’era stata un’altra scossa più debole, allora ci eravamo messi sotto la porta insieme, Frollina stretta a me, che cercavo di rimanere calma. Poi eravamo andati al parco.

Il 29 maggio eravamo tutti più tranquilli. Così la sera prima Frollina era voluta andare a dormire dai nonni, le avevamo detto di si. Eravamo anche usciti. Al mattino ero in cucina. Tino si doveva ancora svegliare, un bel sole filtrava in cucina. Sembra più bella la nostra cucina, quando al mattino, specie di maggio, filtra il sole dal grande albero davanti alla finestra.

Stavo avvitando la macchinetta per metterla sul fuoco quando ho sentito come una specie di boato, un rumore che non avevo mai sentito prima. Ero scalza e ho avuto come l’impressione che il pavimento di piastrelle mi inghiottisse. La casa, d’un tratto, mi è sembrata tanto poco sicura!

Ho urlato, sono corsa in camera da Tino. Mi ha telefonato mia mamma. Poi ho pensato a mia figlia. Cinque minuti. Erano passati solo cinque minuti da quella scossa, che era forte ma diversa da quella del 20 maggio. Dobbiamo andare a scuola, a vedere se silvia è arrivata, che era coi nonni. Chiamiamo i tuoi Tino, voglio sapere se va tutto bene. I telefoni non funzionavano, era tutto muto. Siamo scesi in strada, volevo solo andare alla scuola materna di mia figlia, sapere se andava tutto bene. Per strada la gente era molto scossa, tutti fuori dalle case, tutti fuori dagli uffici. Chi aveva un telefono lo teneva in mano, ma il telefono non funzionava, per un po’ non ha funzionato nemmeno la Rete.

A scuola non siamo entrati. C’era un gruppo di genitori di fianco alla rete del cortile, guardavano tutti i bambini. C’era anche Frollina, correva e si divertiva con i suoi amici. Le maestre avevano trasferito tutti i tavoli fuori, ci hanno detto che avrebbero passato la giornata in giardino, di stare pronti, che se arrivava un’altra scossa chiudevano tutto, di andare a prendere i bambini, ma per il momento erano sicuri.

A piano terra.

Sono tornata a casa. A mezzogiorno ho deciso di andare a prendere Frollina al parco. Non riuscivo a lavorare, pensavo poco. Avevo cominciato a fare questa cosa di pubblicare annunci di persone che mettevano a disposizione camper e roulotte per gli sfollati, ogni 5 minuti mi chiamava qualcuno da Cavezzo, Mirandola, San Possidonio, San Felice sul Panaro. Per sapere se avevo notizie di un mezzo adatto alla sua famiglia. Avevo fatto un file. Come avrei fatto per un lavoro. Con numeri, marche, modelli, disponibilità, situazioni. Non sapevo se stavo facendo bene, ma ormai non potevo sottrarmi, la voce si era diffusa e le telefonate si moltiplicavano.

Verso l’una ero in casa da sola. Stavo raccogliendo le cose per passare la giornata al parco. Volevo solo stare in un posto all’aperto. Possibilmente con mia figlia, con il mio compagno. Su Twitter dicevano che le scuole, dal giorno dopo, sarebbero state chiuse per sicurezza.

Quando è arrivata la scossa dell’una, ho sentito tintinnare i giochi di frollina in camera, le porte si muovevano, i lampadari ballavano. Ho detto rimani calma, stai calma. Mi si è asciugata la gola. Ho pensato adesso muoio, adesso crolla tutto. Non voglio morire qui, da sola. Lontana da mia figlia e da chi amo. Ho afferrato lo zaino e ho fatto l’unica cosa che non avrei dovuto fare: ho cominciato a correre giù per le scale del palazzo. Avevo la nausea, mi sembrava che tutto intorno a me crollasse, tenevo stretto in una mano il macchinino dell’asma, perché sentivo il fiato corto arrivare, il rantolo stava prendendo il sopravvento sui pensieri, su tutto.

In strada c’era una mia vicina dell’ultimo piano. Una studentessa. Non so perché, ma vederla mi ha messo una gran gioia. L’ho abbracciata. Mi sono ricomposta. Sono corsa a scuola. Per strada c’erano molte persone. Alcune ridevano di un riso isterico, altre piangevano. Una – non me la dimenticherò mai, una signora velata – diceva questa è la fine del mondo, così vuole dio.

Sono andata alla Materna. Le maestre erano molto provate. Mi hanno detto che avevano visto tremare il palazzone davanti. Un colosso di 8 piani. Mi hanno detto prendi silvia e portarla al parco. Ho detto datemi anche questa e quel bambino, chiamo le mamme, li porto al parco.

Siamo usciti: loro erano divertiti, c’era questa atmosfera surreale, poi con l’afa e il caldo tutto era avvolto in una strana cappa onirica.

Siamo stati al parco, in tanti, c’erano anziane che si erano portate le sedie, c’erano giovani con i libri, c’erano tantissimi bambini. Ci siamo messi sotto a un albero. Una mamma aveva portato le ciliege. Siamo stati lì fino a quando non ha fatto notte. Io cercavo di leggere le notizie da twitter, che in quel momento mi sembrava lo strumento più affidabile.

Quando il 2 giugno siamo stati a Cavezzo e a Rovereto sulla Secchia per aiutare, io quel giorno lì ho capito che tutto quello che avevo sentito non era che un’eco lontana di quello che le persone di quel posto stavano provando.

Per alcuni mesi il mio zaino è rimasto in corridoio. Ho imparato a individuare subito i muri portanti dei palazzi in cui andavo. Mi vergognavo molto della mia paura. Oggi per la prima volta racconto diffusamente quei giorni, per me.

Uno si sente sicuro a casa propria, questa è la mia verità. E il giorno in cui nemmeno a casa propria ci si sente sicuri, è il giorno in cui si deve fare i conti con quel lato della nostra umanità che più ci terrorizza. Forse non avrei dovuto correre sulle scale il 29 maggio 2013.

Forse avrei dovuto rimanere più fredda. Forse avrei dovuto anche rendermi più utile per chi davvero stava male.

Questi sono i dubbi che mi rimangono da un anno. Un anno dopo che la terra in Emilia ha cominciato a tremare.

Un post it sul portone

E’ spuntato ieri mattina che pioveva: stavo uscendo ad accompagnare la Frollina, di corsa, alla fermata dello scuolabus.

Mi sono voltata verso il portone del condominio e l’ho visto.

Un post it con sopra una scritta, un punto esclamativo con la stellina.

Ti voglio bene

C’è una firma a timbro sotto, dice “Jares” ma non si capisce se appartiene a chi vuole bene a qualcuno o se – più semplicemente – è solo il logo dell’azienda che ha regalato i post it.

Ieri ho sorriso, ho pensato che bella sorpresa per il fortunato (o la fortunata) destinatario di questo messaggio. Ho pensato che forse deve essere come quella volta che avevo 17 anni e il mio moroso di allora scrisse con la vernice

Ti amo

sulla strada che portava alla mia casa.

Che io tornavo dalle vacanze, non ci vedevamo da più di un mese e io subito, a vedere quella scritta, anche se non c’era nessuna firma, avevo riconosciuto la calligrafia e poi mi era battuto forte il cuore.

Che poi ero stata così felice che quando veniva qualcuno a casa mia, gli facevo vedere sempre la scritta a vernice e dicevo è per me! e per un po’ sono stata anche convinta che nessun altro avesse mai fatto un gesto così grandioso per la sua morosa, che quello voleva proprio dire che mi amava sul serio e ogni volta che passavo – che magari avevo preso 4 in greco – io allora guardavo la scritta e alzavo le spalle. Chi se ne frega della versione di greco, io ho una persona che mi ama e me lo scrive per la strada!
Un giorno questo moroso, mica tanto tempo dopo, che ormai stavamo insieme da 3 anni e per quell’età sono un’eternità, quel moroso mi ha lasciata. Ma la scritta c’era ancora e a dire il vero ci è rimasta per moltissimo tempo, che dopo che mi aveva lasciata e stavo malissimo, io a vederla, tutte le volte, quella tenerezza dell’inizio si era trasformata in una lama che mi affettava il cuore e anche lo stomaco. Se potevo cambiavo strada per non doverla guardare quella scritta lì e mi sembrava un enorme atto di egoismo che uno che dopo pochi mesi ti lascia, avesse pensato di scrivere una cosa così eclatante e difficile da evitare.

Ma tornando al post it, allora ieri quando l’ho visto ho pensato che bel gesto, poi un post it lo puoi mettere in mezzo a un diario, un post it se ti lasci lo puoi pure bruciare, non è come una mano di vernice, che devi aspettare gli asfaltatori per cancellare il ricordo.

Poi oggi quel post it era ancora lì: malgrado la via di passaggio nessuno si era portato via  il ti voglio bene!, nessuno l’aveva nemmeno spostato.

Avevo fatto una foto, ma poi tornata su, a casa, ho trovato il tweet della mia vicina che era arrivata prima.

Insomma, un post it può portare un raggio di sole in un intero condominio, porta il mistero che è sempre una cosa che mette dei dubbi, delle domande e porta anche il ricordo – che ognuno di noi ha ricordi di un periodo in cui non si sarebbe vergognato a lasciare un post it sul portone – e non devi nemmeno aspettare che il Comune si decida a rifare la strada per vederlo sparire, nel caso non stia più bene appiccicato al tuo cuore.

[Foto in copertina di Antodiomene – Instagram]

Le ciliegie e i topi bianchi

Tutte le volte che ci passiamo davanti, mio suocero dice:

Ecco vedi, adesso c’è questa chiesa enorme, con Gesù bambino e la sua famiglia che sembrano tutti dei giganti. Una volta c’erano solo degli alberi da frutta, a questo angolo di strada!

Lo dice e sogghigna, pensando a quei tempi in cui – ragazzino – la guerra era appena finita e alla sua famiglia avevano assegnato un appartamento in un nuovo condominio popolare.

I suoi amici del cortile erano il Lungo, Pino e Bortolotti detto Borto.

Lui lo chiamavano Ioffa, anche se nessuno ha mai capito il perché, dato che di nome proprio fa Enzo.

Una volta, racconta sempre mio suocero, c’erano gli alberi carichi di ciliegie e con questi suoi amici avevano scavalcato la recinzione per andare a rubarne qualcuna.

il Lungo – che era il più testa calda di tutti – si era arrampicato sull’albero e gettava un po’ di ciliegie agli amici e un po’ se ne infilava direttamente in bocca.

Era già una buona mezz’ora che erano lì a raccogliere e mangiare, quando sentirono arrivare il contadino e tutti sapevano che con questo qui non si scherzava mica tanto.

Ioffa, Pino e Borto erano scappati a gambe levate e chiamavano il Lungo perché facesse altrettanto, lui però continuava a infilarsi in bocca della roba e così non era riuscito a scendere in tempo.

Il contadino e il suo cane gli erano arrivati sotto.

Scendi da lì, bòia d’un mànnd lèder

sembra continuasse ad urlare l’uomo, brandendo quella che poteva essere una vanga.

Il Lungo non si era fatto intimorire.

Con molta eleganza si era slacciato i pantaloni e calato le braghe. Il contadino continuava a guardare verso l’alto, senza capire bene cosa stesse succedendo.

Davanti allo stupore degli amici – che lo aspettavano in strada – e sopra al muso del contadino, il giovane teppista ad un dato momento aveva cominciato a spingere e a fare dei rumori che non si era capito subito dove volesse arrivare, ma bastò poco e dal suo sedere scese una valanga di merda in direzione del contadino e del suo cane.

Mio suocero si ricorda che una bestemmia come quella che tirò il contadino, prima di allora non l’aveva mai sentita.

L’uomo, che aveva schivato per poco l’umana bovazza, se ne era tornato a casa scuotendo la testa e borbottando mentre il Lungo – indisturbato – continava a mangiare ciliegie.

Per capire com’era il Lungo, racconta sempre mio suocero dopo la storia della cacca, e soprattutto com’erano quei tempi lì, basti pensare che una volta, mentre il vigile dirigeva il traffico tra via Irma Bandiera e via XXI aprile, lui gli aveva rubato la bicicletta d’ordinanza per andare a vantarsi al bar Billi.

Quelli erano davvero tempi appassionati per questo quartiere!

Sotto al portico della Certosa, in quel periodo, c’erano ancora i “topi bianchi”.

Uno non lo direbbe mai, ma dopo la guerra, il Comune aveva dato in concessione alle famiglie di sfollati un arco se avevano 2 figli, 2 archi se ne avevano più di 3.

I topi bianchi,  con cartone e materiali di fortuna,  si erano costruiti delle specie di baracche e vivevano sotto ai portici.

Per andare al bagno, il Comune aveva piazzato qualche gabinetto e delle fontanelle nella piazza della Pace.

Queste famiglie un po’ disperate, forse a causa del freddo o della fame, durante la notte cominciavano a litigare tra loro, urlavano, si prendevano a botte. Mio suocero dice –  e conclude sempre così questo racconto di racconti – che allora il vigile a cui il Lungo una volta rubò una bicicletta, e che abitava lì vicino, verso le 3 del mattino prendeva la sua pistola e sparava due o tre colpi dalla finestra.

Dopo non si sentiva volare una mosca e tornava la pace.

[Immagine in copertina – Licenza CC – flickr – foto di Margotta]

Cerbottane e fionde: le usavate?

Ho una storia nella testa con dentro una cerbottana e una fionda, mi è venuta in mente oggi, parlando con il mio amico Daniele al parco, che ci viene sempre da raccontarci delle cose dell’infanzia, mentre rincorriamo le nostre figlie. Mi piacerebbe tanto sapere se usavate uno di questi giochi, se li usano i vostri figli e come e se ne avete voglia, vi chiederei di raccontarmi un aneddoto. O qui o su friendfeed.

Grazie mille

Le avventure di Panz Sawyer

Le avventure di Tom Sawyer

Quando eravamo bambine, con la mia amica Manolita c’avevamo questa fissa di trovare delle avventure come Tom Sawyer.

Per esempio andavamo ad attaccar briga con i bambini del paese per poi intraprendere battaglie a cerbottana nei pressi della nostra casa sull’albero.

Per esempio andavamo al fiume in bicicletta e ci sfidavamo a guadarlo senza perdere l’equilibrio, a piedi nudi sui sassi.

Per esempio passavamo l’estate ad esplorare tutti i posti più strani e paurosi che c’erano intorno alla nostra casa, rubavamo le pannocchie al contadino – che quando ci scopriva erano dolori e proiettili di sale nel culo – spiavamo i ragazzi più grandi e stavamo ore e ore in giro con la bicicletta che alla fine si trovava sempre qualche bella avventura.

Quando faceva molto caldo si leggevano libri di avventura, all’ombra del nostro giardino e quando eravamo annoiate, ci chiudevamo in casa a fare gli scherzi telefonici, che lei era bravissima. Chiamavamo facendo finta di cercare la pizzeria “Tre Galletti” e andavamo avanti, chiedendo delle nostre pizze all’involontario malcapitato, per ore.

Una volta una signora, che si vede era molto sola, tenne la Manolita al telefono per due ore e alla fine, a sentire questa storia di solitudine, ci era venuta una depressione tale che volevamo andare a cercarla per capire se c’era bisogno di coinvolgerla in qualche avventura.

Questa cosa delle avventure è andata avanti per un bel po’ di tempo, dai 10 ai 13 anni di sicuro.

La Manolita fa parte di quelle persone a cui tengo moltissimo perché secondo me le amicizie di quando sei bambina sono quelle a cui ti affezioni in un modo quasi fraterno che poi, potreste non vedervi anche per 6 anni, ogni volta è bellissimo. Comunque la Manolita e io ogni tanto ci vediamo ed è molto bello, ci raccontiamo come se le nostre vite fossero ancora ad abitare l’una accanto all’altra.

Ieri sera la Manolita mi ha chiamato che rideva come una pazza. Mi ha detto che stava rileggendo il suo libro delle avventure di Tom Sawyer e che dentro ci aveva trovato un mio biglietto di quel periodo (età 12 anni circa) e sul biglietto c’era scritto così:

Quando leggerai questo biglietto, per me sarà troppo tardi, mi avranno già portata via.

Non dire niente a nessuno e vieni al laghetto del contadino con:

del cotone idrofilo

dei cerotti

e un panino alla mortadella

Panz

Tino sostiene che allora ha ragione lui quando mi dice che io di certo sono caduta nel Pentolone della “Matteria” da piccola.

L’odore del cloro

Qui a Tortellini city fa davvero MOLTO caldo. Un enorme phon puntato sulle nostre vite le surriscalda. L’afa è elevata e ci sono delle mattine che ci svegliamo già con un po’ di mal di testa.

Frollina sta terminando la seconda (e ultima) settimana di Campo Solare. Si diverte la marmocchia, ci sono dei giorni che alle 7.30 si piazza davanti alla porta, in attesa di essere portata a scuola, scalpitando per la voglia di andare.

Dato che stare in giro con queste temperature è quanto mai sconsigliabile, quando vado a prenderla da scuola, alle 16.30, carico in auto lei e qualche amichetta e ci fiondiamo in piscina. Ce ne è una poco distante da casa circondata dalle colline. Hanno recentemente costruito la vasca all’aperto e così tutto sembra molto entusiasmante. La nuova piscina è provvista perfino di comodo “divanetto” acquatico con spruzzi idromassaggio:  mentre lei starnazza con i braccioli, io a volte mi siedo a far rimbalzare le terga.

La consuetudine con l’acqua sta producendo effetti mirabili su mia figlia. Oltre a rilassarla, tanto che arriva alla sera fresca, stanca ma contenta, sta imparando a battere le gambe, muovere le braccia in maniera quasi coordinata e quando ci tuffiamo, riesce a chiudere il naso e la bocca e quindi non beve.

Potete immaginare la gioia di mamma Panz, per la quale la piscina è stata una casa per parecchi anni e che tiene appesa al chiodo anche una carriera di nuotatrice agonistica e maestra di nuoto.

Io arrivo a fine corsa della giornata che sono cotta ma contenta, perché almeno la piccola se la spassa e anche io, devo ammettere, ritrovo un po’ di verve grazie alla magica pozione acqua e cloro.

Noi qua non abbiamo mica il mare, ma con un po’ di fantasia, una piscina immersa nel verde con vista San Luca può benissimo essere un ottimo compromesso.

Vent’anni fa io passavo tutte le serate d’inverno in luoghi come questo. Mi allenavo due ore tutti i giorni e spesso il sabato e la domenica partivo per le gare.

D’estate c’erano i campionati nazionali. A fine luglio. Con la fine della scuola ci allenavamo due volte al giorno: mattina e sera.

Iniziava una stagione meravigliosa, fatta di vita corale alla piscina del mio paese, giochi in acqua, scherzi e amori estivi. Passavo là tutta la giornata, perché finiti gli allenamenti ci sistemavamo nel grande parco a prendere il sole, in attesa di quelli serali.

C’era questo odore di ginestra tutto intorno, c’erano gli amici, c’era il mio allenatore con il suo sorriso bianco e la maglietta arancione.

C’era questo entusiasmo giovanile. Un misto di aspettativa per i doni dell’estate, le vacanze, le serate passate fuori casa mischiato a un senso di incertezza per il futuro che poteva contenere qualsiasi cosa.

Sogni grandissimi sfumavano in paure piccole ma che sembravano insormontabili.  Nel 1988 mi sono innamorata. Per la prima volta, davvero. Un amore giovanile ma che mi ha segnata profondamente. Non è stato il fuoco fatuo di una stagione ma il primo “fidanzatino”, quello che ti viene a prendere a scuola e che per un anniversario ti regala perfino un anellino con lo zircone.

Era un mio compagno di squadra. Non lo avevo mai considerato, per la verità. Quell’anno si trasformò da bambino a ragazzo e ricordo ancora l’esatto istante in cui mi accorsi dei suoi occhi.

Lui – già da qualche mese, forse un anno – aveva il mio nome intarsiato sul diario. Una volta lo avevo perfino beccato e questa cosa, di uno che aveva il mio nome scritto da qualche parte, mi aveva lasciato un misto di imbarazzo e stima che non conoscevo.

Ma a me allora lui sembrava solo un cinno. Non so come fu, ma da un giorno all’altro divenne, ai miei occhi, un uomo. E così, durante i campionati italiani, cominciammo a fiutarci e pochi giorni dopo, in una fine di luglio caldissima ci “mettemmo insieme”.

Gli scrissi io un biglietto, al termine di una cena della nostra squadra, su un pezzo di carta igienica. C’era il mio numero di telefono e sotto – per fare la simpatica – avevo scritto:

Ps: telefonare ore pasti!

Pochi giorni dopo esserci dati il primo bacio – rigorosamente munito di apparecchio per i denti – partimmo entrambi per le vacanze.

Ci scrivemmo lettere appassionate per un mese e il giorno in cui ci dovevamo rivedere, con appuntamento sotto la statua del Nettuno, in Piazza Maggiore a Bologna, io avevo un enorme brufolo che svettava sul mio visino.

Mi ero tutta sprimacciata, tirata, lisciata, impomatata. Avevo scelto con cura e largo anticipo cosa mettermi. Attendevo con impazienza il nostro incontro. Io ero tornata prima dalle vacanze, mentre lui arrivò il giorno stesso del nostro appuntamento (fissato da oltre un mese!).

Quella mattina mi svegliai e avevo questo brufolo rosso, sulla carnagione abbronzata.

Non bastarono impacchi di yogurt, preghiere in aramaico e voti alla Madonna: il bastardissimo vulcano, pronto a eruttare giovinezza, era lì, orgoglioso, sulla mia guancia.

Arrivai all’appuntamento emozionata che – per paura che lui mi avrebbe trovata brutta – tenni tutto il tempo la testa girata dalla parte in cui mi consideravo guardabile.

Lui non capiva.

Se provava ad affiancarmi sul lato acneico, io facevo un giro su me stessa e mi posizionavo dall’altra parte. Sembravo un incrocio tra una cocainomane in stato allucinatorio e una a cui aveva preso un pesantissimo colpo della strega con optional di torcicollo fulminante.

Alla fine, un po’ perplesso, mi chiese cosa stava succedendo. Cosa nascondevo. Dovetti svelare il mio increscioso segreto.

Mi guardò con i suoi occhi luccichini e mi disse: “Ma credi davvero che a me importi del tuo brufolo? Potresti averne anche 100 ma mi piaceresti lo stesso!”.

Ecco.

Credo che quello fu l’istante esatto in cui mi incatenò. Allora non sapevo che quelle catene – belle e anche dolorose – ci avrei messo molti anni per scioglierle. Allora non sapeva, nemmeno lui, che sarebbe diventato il protagonista di numerosi diari e lacrime amorose.

Ora non è più importante, ma quando arriva l’estate e vado in piscina, ci sono dei giorni che ancora ci penso, agli allenamenti, al cuore che batteva, al senso di amicizia che hai a 15 anni, al primo amore struggente e nuovo e pieno di cose che non conosci e ti rimescola il cuore, a quell’uomo dal nasone e la maglietta arancione a cui volevi bene come a un padre e un giorno c’era, il giorno dopo il Destino lo aveva portato via per sempre.

Ci sono dei giorni che ecco, l’odore del cloro mischiato all’acqua è come una madeleine. Un ponte levatoio tra presente e passato. Contiene volti, ricordi, storia.

E partecipa di quello che sono.

Oggi.

Master mind (forse è solo una prima puntata)

Ho letto questo post e mi è venuta nostalgia di uno dei periodi più strani, faticosi, belli, stimolanti, diversi della mia vita.

Mi sono laureata nel 2001 – che di anni ne avevo 27 e avevo fatto molti lavori e molte volte avevo meditato di cambiare facoltà (per la verità, dopo il primo anno l’ho pure fatto che avevo iniziato geologia!) e a volte avevo pure pensato di non finire l’Università.

Ho sempre lavorato. Sempre vissuto due vite parallele: quella della studentessa e quella della lavoratrice. Sono andata a vivere da sola (con mio fratello, poi con un’amica) che ero molto giovane e così per certi versi facevo le stesse cose dei miei coetanei studenti, per altri vivevo come sospesa in un Universo da lavoratrice che mi apparteneva solo per metà. Continua a leggere

Un nuotatore sarà un nuotatore per sempre

Io per tanti anni ho nuotato: facevo nuoto pinnato agonistico. Il nuoto era la cosa che amavo più di tutte, i miei compagni di squadra erano i migliori amici che potessi avere e tra allenamenti e gare, nel periodo dell’adolescenza, ho accumulate delle esperienze uniche, che mi fanno sentire una persona molto fortunata.

Il mio allenatore lo chiamavamo Pluma. Indossava sempre una maglietta arancione sul suo corpo di atleta e aveva un naso davvero ingombrante ma assolutamente simpatico e unico: come lui. Ci preservava dai rischi di vivere in un piccolo paese negli anni ottanta (quando l’eroina la si trovava sopra ogni panchina) insegnandoci la gioia dello sport come forma di rispetto per noi e gli altri.

Mi chiamava Gigiulona. Perché io cadevo ovunque, mi incartavo nelle situazioni più strane e non sapevo davvero come gestire il mio corpo che da un giorno all’altro sbocciò, passando da bambina a donna.

Gli leggevo i racconti ricchi di pathos che scrivevo e gli raccontavo le storie che erano nella mia testa: quando ci spostavamo sul pulmino per andare in giro per l’Italia a qualche gara, mi sedevo spesso accanto a lui e cantavo in giapponese. Mi inventavo una lingua assurda e producevo nenie lunghissime da suicidio, tanto che i miei compagni di squadra – più di una volta – mi hanno combinato scherzi pesantissimi per vendicarsi di questa mia odiosa pratica che era diventata – comunque – una sorta di rito. Continua a leggere

Le vie del tempo

Oggi sono stata a fare degli esami del sangue dall’altra parte del Mondo, in quella zona della mia città dove sono nata e ho trascorso i primissimi anni di vita.

Ero in anticipo e così mi sono concessa un giro dei ricordi. Con la macchina, senza un caffè nè cibo in corpo mi sono infilata ben dentro agli anfratti della mia infanzia. C’è un nugulo di stradine là che sembrano ferme nel tempo. Hanno nomi magici di colori e pietre preziose e ci sono vecchie case – un tempo sul limitare della città – circondate da giardini rigogliosi e alberi da frutta.

In una di quelle vecchie case abitava la Bassotta, che era la mia amichetta del cuore. La Bassotta prima stava in un palazzo con le sue sorelle e i suoi genitori e poi – dopo che avevano trovato il babbo morto addormentato sul divano – si era trasferita in una di questa case con il giardino e gli alberi da frutto, dove abitava una vecchia zia.

Quando a scuola, me lo ricordo bene, vennero a dirci che il padre della Bassotta ci era rimasto secco, morto e addormentato e facemmo tutti una preghiera per lei e la sua famiglia, ecco io piansi moltissimo. Fu la prima volta che ebbi la vera percezione della Morte nella mia vita, allora piccina.

Perché Papàbassotto c’aveva un bar e ci portava sempre, a me e alla sua bimba, a fare le scorte di caramelle e dolciumi nel grande emporio riservato ai baristi. E ci faceva assaggiare tutte le caramelle e i cioccolatini fiat e anche le gomme da masticare, di quelle che regalavano i tatuaggi di Ufo Robot. Io la prima volta ero rimasta un po’ interdetta, che mamma mi aveva insegnato che rubare è peccato e a catechismo ci dicevano che offende la Madonnina di S.Luca, ma lui – me lo ricordo come fosse ieri – mi aveva guardato con quei suoi occhi lunghi, azzurri e buoni e mi aveva detto che noi non stavamo proprio rubando ma solo assaggiando la merce.

Così quando questo uomo basso dagli occhi buoni si era addormentato per sempre, ecco io ci ero rimasta davvero male. Anche per lei, la mia amichetta del cuore che da quel giorno era diventata meno sorridente.

La casa degli alberi aveva però un bel giardino e noi passavamo i pomeriggi a giocare lì, sul dondolo e al tavolino in legno. La zia ci portava l’orzata e la mamma della Bassotta ci offriva i biscotti.

Stavo bene in quella casa. E ogni giorno quando da quelle vie mi addentravo con mamma verso i giardinetti dove giocavo a calcio con le mie amiche e avevamo fondato la squadra femminile della scuola e mi travestivo anche da Nanni Kuker per indagare su qualche giallo del quartiere, io mi sentivo la Regina del Mondo.

Ai giardinetti avevo imparato ad andare in bici senza le rotelline e mi ero messa, per la prima volta, quei pattini gialli e neri che si allungavano e che erano tanto di moda all’inizio degli anni ottanta.

Si tornava a casa ad una certa ora e mio fratello ed io facevamo il bagno insieme. Una volta che mi ero fatta prendere la mano, avevo deciso che volevo imparare a lavare i panni e ho fatto un esperimento empirico con i capelli di mio fratello e il sapone da bucato. L’ho fatto stendere, in modo che i capelli fossero adagiati nell’acqua e ho cominciato a strofinarli vigorosamente con il Sole Bucato.

Quando mia mamma è arrivata, cantavo “la bella lavanderina che lava i fazzoletti” e il marmocchio stava bevendo tutta la vasca: mi sono beccata una di quelle sgridate che ricordo ancora con terrore, ma non ho più tentato di annegare il secondogenito.

Ma torniamo a oggi e a me, con le mie mani da rettile, un caldo agostano torrido e lo stomaco vuoto che mi aggiro per le vie della memoria e ripenso a queste e ad altre storie e risento il profumo dei biscotti della Bassotta e rivivo i ritmi regolari della vita di fanciulla, gli stessi che mi piace regalare alla frollina che i bambini, io penso, hanno bisogno di luoghi riconosciuti, di facce uguali e di appuntamenti certi.

Sono lì che riassaporo i ricordi con un nodino alla gola che non sono proprio lacrime ma che è tanto vicino ad una sorta di malinconia delle cose perdute, indipendentemente da quel che si è perso, che la mia macchina mi porta direttamente davanti al cancellino della casa della Bassotta.

Al posto del vecchio dondolo in ferro battuto c’erano delle altalene tutte colorate in plastica.

Il tavolo in legno era ancora lì, con una rosa arrampicata sulle gambe. La casa sembrava sempre lei, anche se sono passati più di 25 anni.

Mi sono fermata a guardare. Ho rivisto Panzallaria quando era piccolina e non sapeva dove l’avrebbe portata la vita: in quanti posti e con quanti incontri eccezionali e non.

Ho rivisto la mia barbie e la distesa dei Puffi che collezionavamo io e la Bassotta e la casa che avevo costruito con le scatole da scarpe e di cui andavo molto orgogliosa.

E mentre ero lì che osservavo il passato riflesso nel presente si è aperta una porta. E’ uscita una donna con due bambini.

Due bambini poco più grandi della frollina.

Una donna dagli occhi neri e la bocca lunga. Una donna Bassotta.

A me il cuore ha cominciato a battere all’impazzata.

Volevo uscire, volevo dirle

ehi ti ricordi di me? giocavamo con i puffi e tua zia ci portava l’orzata…ma sono i tuoi figli questi? sai anche io ho una bimba, lei si chiama Frollina. Ho le mani come quelle di un rettile ma non devi avere paura. Sono la mappa della mia vita, insieme ai miei occhi e a questa frangetta che ho tagliata storta. Tu sei bellissima, in tutto il tuo metroecinquanta e con quel sorriso che ora è tornato lungo e pieno come quando ti ho conosciuta, prima che tuo babbo si addormentasse. Chissà quante cose avrai da raccontare, chissà quante persone sono venute e andate e quanti posti hanno visitato i tuoi occhi. La mia memoria è straripante ma c’è sempre un posticino speciale per te e per quegli anni di noi due piccole…

Mi sono proprio emozionata, mi sono. Avrei voluto dirle tante cose.

Le vie del tempo sono percorsi contorti e spesso avvolti nella nebbia, ma in certi punti, del tutto inaspettatamente, si toccano tra loro. Tu non sai mai quando avverrà ma quando avviene devi fare una scelta.

O congiungi i fili e invadi il presente di passato

O guardi da dietro un finestrino e poi riparti.

Ho guardato l’orologio: ero in ritardo per il mio esame. Ho acceso la macchina e mi sono diretta verso l’ospedale.

La casa della mia infanzia

La casa della mia infanzia aveva le scale dentro e il giardino fuori e in giardino ci stava un cane.

La casa della mia infanzia aveva certi giorni un profumo di pane che non so da dove venisse. E il camino, il camino che ogni tanto la mamma accendeva e noi ci buttavamo dentro le bucce di arancia così usciva un buon odore. Continua a leggere