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Importa davvero conoscere il genere di una persona per amarla?

A Nina importa davvero sapere se Sasha è maschio o femmina o le basta quel sentimento che sente crescere?

Poche pagine e te lo chiedi anche tu, lettore, insieme alla protagonista dell’ultimo libro di Giorgia Vezzoli, Ti amo in tutti i generi del mondo, Edizioni Giraldi. 

Quello di Giorgia è un romanzo che lentamente ti conduce in una storia in cui, novità editoriale assoluta, uno dei protagonisti è di genere non definibile.  Continua a leggere

Fare cose stra-ordinarie

Ieri sera si è concluso il corso di scuola elementare di scrittura emiliana di Paolo Nori che ho frequentato in questi mesi con una pubblica lettura di alcuni dei nostri compiti alla Libreria Modo Infoshop di Bologna.

L’ho già scritto quanto mi è piaciuto questo corso. Ho già detto che Paolo Nori è uno dei miei scrittori preferiti. Non ho però parlato della cornice, della bellezza collaterale di avere deciso di partecipare a questa avventura.

Leggere libri, condividere letture e cose scritte da noi con altri è stata per me un’esperienza davvero stra-ordinaria. Eravamo in 9 scolari,  tutti sconosciuti gli uni agli altri. Io conoscevo poco solo La Pasionaria per via dei giri della Rete e sono arrivata senza particolari aspettative e con tanta voglia di spogliarmi del mio ruolo sociale e culturale per mettermi in ascolto. E così mi sembra abbiano fatto tutte le altre persone che erano lì.

Lunedì dopo lunedì abbiamo cominciato a annusarci, a conoscerci.

Ma non attraverso il racconto di cosa facciamo, di come ci rappresentiamo, ma grazie alle letture, ai compiti che ci dava Paolo, a testi a volte finzionali a volte no che a turno – durante l’ultima parte del corso – leggevamo.

E ho scoperto l’intelligenza acuta di Barbara, Alessia che ha la voce più bella del mondo, Donata che è pacata e fa foto bellissime, Matteo che è di una spontaneità coinvolgente e disarmante, Valentina che è il sole, Elisa e il suo passo leggero e elegante, Jessica e la sua giovane simpatia, Paolo R. che fa ridere e ha viaggiato il mondo.

Ho scoperto persone “nude”, senza sapere che lavoro facevano, senza chiedere quale fosse il loro passato, senza parlare di impegni professionali, di passioni politiche o ruoli istituzionali, ma solo per quello che leggevano, che ogni tanto ci raccontavamo durante la pausa e per il mondo fatto di libri, narrative, passioni letterarie comuni, grandi e piccole aspettative di scrittura e qualche battuta di vicendevole simpatia.

Alcuni facevano tanti chilometri, tutti i lunedì, per venire al corso di Paolo Nori. Altri hanno la metà dei miei anni. Di alcuni abbiamo scoperto mondi in comune, anche solo per questioni anagrafiche o scuole frequentate. Tutto è successo lentamente e spontaneamente, ci siamo ritrovati a stimarci reciprocamente, ad avere voglia di incontrarci, a condividere quelle due ore fuori dal mondo consueto, dietro una tenda che separava la nostra stanzetta del corso dal resto della città e delle nostre singole vite.

Paolo Nori leggeva, noi prendevamo appunti e intanto tessevamo anche una cosa stra-ordinaria che ci spingeva ad aspettare con ansia il lunedì successivo.

Ieri sera abbiamo letto, ciascuno il suo pezzetto – composto per questo o quel compito della scuola – in un ballo ritmato che meglio non sarebbe potuto andare, come se ci fossimo coordinati, come se avessimo in qualche modo scelto, ognuno, la sua posizione e ce lo fossimo detti, senza dirci niente.

Abbiamo riso. Prima e dopo. In pizzeria e a bere del vino. Ci siamo scritti dediche sul quaderno in cui Paolo Nori ha raccolto i nostri compiti. Abbiamo cercato di comunicare a lui la nostra gratitudine, abbiamo pianificato gruppi di lettura in questo o quel posto, aperitivi letterari ma anche no.

E mentre tornavo a casa in autobus, dopo una giornata lunghissima fatta di lavoro, festa della scuola di Frollina e saggio finale, sentivo come un senso di leggerezza, sentivo come il cervello svuotato di impalcature.

Mi sono resa conto che ho fatto una cosa stra-ordinaria iscrivendomi a questa scuola. Non una roba da campioni, sia inteso, ma semplicemente qualcosa che esce dalla mia normalità, dalle giornate impostate, anche dalle amicizie consuete, se vogliamo.

Mi sono messa in gioco, ci siamo messi in gioco e il gioco è stato bello. Io non lo so se è vero per tutti, ma per me, di sicuro, vale la pena ogni tanto uscire dagli schemi, uscire dalla me che do in pasto alla vita ogni giorno, trovarmi a rimettere tutto in discussione, anche le letture, i pezzi di puzzle che hanno composto i miei anni.

Non so se avrei scritto queste cose 20 anni fa, ma ora tutte le volte che guadagno una relazione sana con gli altri, un ritmo di pensieri che si intona perfettamente anche quando diverge, ecco io mi sento particolarmente fortunata. Perché non è mica così scontato gestire momenti della vita fatti di spontaneità, quando nel tempo ci si forma ognuno le proprie sovrastrutture.

E per esempio, io ultimamente passo molto meno tempo in rete, non è per disinteresse, sia chiaro, ma mi sono resa conto che ultimamente c’ho molto bisogno di relazioni fisiche, dirette, di sentirmi un flusso che non generi aspettative che vadano solo in una certa direzione e la Rete, quando tu ci sei dentro fino al collo come la sottoscritta e ci metti lavoro e personale è uno di quegli spazi in cui il ruolo non è affatto secondario e la divergenza da quel ruolo, delle volte, suona come un tradimento sociale.

E invece io in questo periodo ho bisogno di divergenza, di spontaneità, di relazioni non coatte. Io in questo periodo ho bisogno di cose stra-ordinarie.

E quelle persone lì, quelle persone che hanno frequentato la scuola di scrittura con me, ecco loro sono persone stra-ordinarie e io lo so che sto per scrivere una cosa enorme, ma io a quelle persone lì mi sento che gli voglio molto bene, perché abbiamo fatto un pezzettino di strada insieme, la stessa.

In un mondo dove di solito si cammina su binari paralleli.

I lettori di libri – Gianni Celati

L’ingegnere li ha convocati e chiede loro: “Ditemi un po’, cosa c’è che non va in voi due? Siete disturbati di mente? Bevete? Oppure siete gente che legge libri?”.

Lo studente ammette a testa bassa d’esser uno che legge libri, e molti. Al che l’ingegnere scoppia ad urlare, furibondo: “Ecco perché non vendete niente, Cristo! I clienti vi fiutano!”.

Estratto di: Celati, Gianni. I lettori di libri sono sempre più falsi. Feltrinelli. iBooks.

Uno dei libri che ho appena terminato di leggere in questa fase di voracità letteraria. Che cosa cerchiamo nella letteratura? Perché alcuni libri ci avvincono così tanto? A cosa serve leggere? Uno studente di Lettere va alla disperata ricerca delle risposte a queste domande.

Un libro sulla lettura del mondo e la lettura dei libri: in quale rapporto stanno queste cose? Gianni Celati ha una delle scritture più pulite e insieme coinvolgenti che conosca, un modo limpido di guardare ai gesti e anche ai sentimenti, una semplicità che anche scrivere sembra facile come bere un bicchiere d’acqua e invece è come fare l’equilibrista su un filo teso da qualcun altro. Un libro rapidissimo (racconto lungo) che consiglio e che sul sito della Feltrinelli si può acquistare anche in formato ebook.

La copertina

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Di mamma ce n’è più di una

L’ultimo libro di Loredana Lipperini ha un titolo autoesplicativo: Di mamma ce n’è più di una.

A Bologna è stato presentato ieri ma io sto uscendo da un’influenza particolarmente pesante e purtroppo non sono potuta andare ad ascoltarla. Mi sarebbe piaciuto per molti motivi. Stimo molto Loredana e di questo libro ne abbiamo parlato un giorno di ottobre del 2011 a Ferrara.

Ci siamo scambiate pure qualche mail in proposito e le ho raccontato la mia esperienza di mamma blogger “pentita” e che si sentiva strangolata da un’etichetta che ai miei occhi, oggi, dipinge soprattutto un mondo molto granitico, un po’ fashion e tradizionalista e che ha più a che fare con il marketing che con la possibilità di portare punti di vista dialettici e variegati sulla condizione delle donne in Italia.

Senza fare di tutta l’erba un fascio e senza demonizzare il marketing (nel quale per altro anche io lavoro), credo che le grandi potenzialità di quello che poteva essere un movimento d’opinione sociale si siano un po’ ridotte a dinamiche da focus group condite da grandi aspettative professionali  riposte in 2 o 3 persone verso le quali non si può essere critiche per paura di una “epurazione” che tocca non solo un ambito potenzialmente professionale, ma anche personale, in quella cerchia allargata di “amiche” virtuali che genera la Rete e che in certi momenti della vita ci fa sentire capite, protette e sicure.

Loredana ha inserito in un capitolo del suo libro questo mio vecchio post  che oggi forse scriverei un po’ diversamente ma che sostanzialmente è ancora molto aderente a quello che penso e che ha generato eventi estremamente chiarificatori (credo di aver chiuso almeno 5  pseudo “amicizie virtuali” per quel che ha scatenato, ma forse sono anche di più e in ogni caso si trattava di rapporti evidentemente fondati su un dooping emotivo  da etichetta rassicurante).  Nel libro c’è anche un pensiero che fa parte dello spettacolo “La rivincita del calzino spaiato” e che è in un altro post/manifesto 

Quando le nostre nonne sfornavano figli come conigli, essere mamme faceva parte della vita. Ora sembra che ti abbia unto il Signore! Sembra che ti abbiano messo a parte di un segreto che puoi condividere solo con gli altri eletti, che se no ti rubano il copy.

Il libro di Loredana NON è un libro sulle mamme blogger, sia chiaro, ma un libro sul modo in cui viene percepita la maternità, l’essere madre e il ruolo sociale della mamma in Italia, di quali sono le spinte centrifughe tra mito della famiglia tradizionale, donna in carriera e mamma equilibrista.

Il libro di Loredana racconta tutte le donne, quelle che i figli li vogliono, quelle che li hanno, quelle che non li hanno, quelle che non li vogliono. Parla della relazione tra uomo e donna, di come l’essere madre sia diventato, nel tempo, status sociale per alcune, di come questo status sociale – assunto da marketing, pubblicità e comunicazione – si sia evoluto e abbia assunto precise connotazioni, in una scelta minima di etichette che non lascia spazio alla diversità della singola persona.

Parla di come il ruolo di madre sia uno dei punti critici su cui si gioca la rete femminile di aiuto e comprensione. Perché ancora troppo spesso:

Chissà come mai, ma quando si parla di donne, e soprattutto di maternità, si tende ad arrogarsi il diritto di parlare a nome delle altre.

E’ un libro che contiene tante cose. Ecco alcune che hanno colpito me, la mia sensibilità, il mio modo di essere persona. Alcune che mi hanno fatto riflettere.

Figli oggetti di consumo

Che piaccia o meno i figli sono diventati “anche” un oggetto di consumo, una delle emanazioni del “voglio averlo e lo avrò”, un rispecchiamento ulteriore dello “you” che siamo diventati

Anche i figli oggi sono “tutti intorno a te” o meglio, noi siamo tutti intorno a loro per procacciargli non benessere ma FELICITA’:

Se un tempo il sogno americano e la ricerca della felicità consistevano nel perseguire un complessivo appagamento, oggi si sono trasformati nell’idea che si debba essere felici sempre e in ogni ambito.

Ipermedicalizzazione o ipernaturalizzazione

La mia ‘impressione – leggendo il libro, ma non solo –  è che quando una coppia scopre di aspettare un bambino, cominci già ad imporsi un dualismo di modelli legato all’ambito medico/parto.  Da una parte c’è una forte spinta alla medicalizzazione avanzata della nascita, dall’altra una spinta altrettanto forte (e subdola) alla ipernaturalizzazione della stessa.  I messaggi sociali che arrivano alla futura mamma sono comunque forti e colpevolizzanti.

Il senso di colpa

Lo schivare, allontanare, gestire il senso di colpa (che torna come un mantra) è il filo rosso che accomuna ogni madre in Italia e ogni donna che non ha voluto essere madre. Il senso di colpa sembra – in certi casi – il collante che lega donne/madri in gruppo e le mette contro altre donne/madri o donne non madri.

Mamme, marketing, web

Il mommy-blogging è un fenomeno straordinario: ma insieme ai lati positivi (la solidarietà tra madri, la condivisione delle problematiche, l’aiuto reciproco) ha i suoi cuori di tenebra. Non ultimo, l’ulteriore mitizzazione della maternità. (…) Dunque, la famosa mamma imperfetta, giustamente difesa contro il modello della madre sacrificale, diventa a sua volta icona di perfezione: sei perfetta se sei imperfetta, se non puoi fare tutto ma lo fai e se ci ridi sopra su un blog…

Concludo con questa citazione che è quella su cui da tempo mi sono fermata a riflettere di più. Perché anche io ho contribuito, senza volerlo, a creare questo stereotipo e quando mi sono accorta che ero diventata un “personaggio”, nel senso più granitico del termine, mi sono sentita soffocare e sono dovuta scappare a gambe levate.

Credo che si, di mamma ce ne sia più di una e se cominciassimo a essere meno interessate al modo in cui le altre scelgono di esserlo e più interessate a conoscere le altre in quanto persone, saremmo già a cavallo. Sono certa che questo libro possa aiutare molte persone (donne e uomini) a liberarsi di questo giogo che ci imponiamo e che ci impone la società per “monetizzarci”.

Indicazioni bibliografiche

Loredana Lipperini, Di mamma ce n’è più di una, Feltrinelli, 2013

Prezzo: € 15,00

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Una vita e le sue debite proporzioni. Per Andrea e Giovanna

Ho conosciuto Andrea Menetti di persona una volta sola. Un mese e mezzo fa.

Lo conoscevo da un po’ di anni perché di lui mi parlava spesso sua moglie Giovanna, in un carteggio fuori dal tempo che tessiamo dal 2008. Un carteggio digitale.

Ci siamo conosciute poco più che bambine e alle Medie eravamo legatissime, compagne di banco, leggevamo i rispettivi “libri” scritti di straforo durante qualche lezione noiosa a scuola e entrambe avevamo una passione per la grammatica (si lo so, non si direbbe).

Diverse come il diavolo e l’acqua santa, abbiamo scelto di andare a scuola insieme anche al Liceo, dove la diversità  si è fatta più forte, ma l’affetto ci univa sempre. Giovanna è sempre stata una persona saggia, equilibrata e di fede. Io mettevo alla prova la mia vita in continuazione, la parola di Dio non mi ha mai convinta molto e sono sempre stata un vero casino.

Dopo il Liceo ci siamo perse. Come spesso succede. Abbiamo frequentato la stessa Facoltà, ma compagnie totalmente differenti. Ricordo un incontro, lei stava per laurearsi, io mi stavo cominciando ad accorgere di frequentare l’Università giusto allora.

Era il 1998. Forse.

10 anni dopo è stata lei a contattarmi. Tramite questo blog. Il giorno del mio compleanno, in un periodo molto difficile per me.

E abbiamo cominciato a scriverci. Abbiamo cercato di vederci, ma la vita ha travolto me con una bambina piccola, lei con l’evolversi della malattia di suo marito.

Ma non abbiamo mai smesso di sentirci, di raccontarci quello che ci capitava. Un po’ come alle Medie, che ci scrivevamo i “bigliettini” o le dediche sul diario. Lei non lo sa, ma nella mia scatola delle lettere ne conservo ancora alcune. Cartoline dall’estate, pezzi di disegni che commentavamo, pagine accartocciate di frasi generose di ottimismo e vitalità.

In questi anni ho imparato così a conoscere Andrea Menetti attraverso lo sguardo innamorato della moglie. Attraverso la cura per i dettagli, la voglia di farlo felice, la gioia per le sue soddisfazioni professionali e di studioso. Ho visto il suo studio pieno di libri, impilati l’uno sull’altro; scaffali di sentimenti e sapere e pensieri.

Ci siamo sedute nel loro terrazzo e lei era così piena della loro vita coniugale, che riuscivo quasi a visualizzarli, leggere un libro – nelle sere d’estate – seduti nel loro terrazzino pieno di fiori. [che invidia per quei fiori meravigliosi!].

Andrea l’ho conosciuto di persona il 27 giugno. Grazie alla meraviglia di un posto che si chiama Libreria Trame, alla sua proprietaria e alla bravura di Anita Giovannini (l’attrice, ormai amica, che recita nello spettacolo che ho scritto), abbiamo organizzato un reading del suo primo romanzo, Debite proporzioni, edito MUP.

Un reading e un’intervista che è stata – per me – un grande onore.

C’era tantissima gente. Andrea era un po’ sofferente per via dei suoi guai di salute, ma ha dimostrato una lucidità precisa e contagiosa sul ruolo dello scrittore, sul perché ha scelto uno stile così particolare, apparentemente difficile ma tanto intriso di un retroterra culturale fatto di classicismo e di D’Arzo e Erba.

In una serata di inizio estate ci ha svelato il perché di una scrittura, di un plot che mischia memoria, accadimenti e sfuma tutto nell’aspettativa di uno sciogliersi degli eventi, di una ricerca della verità che non può – e forse non deve nemmeno – arrivare.

Perché la vita è moltiplicazione di punti di vista.

Mentre preparavamo la nostra intervista, per il reading, Andrea mi ha detto una frase che mi ha sentito estremamente assonante: “Non si scrive per dare risposte, ma per instillare dubbi”. Lo diceva anche un altro grande della letteratura italiana (che ho amato moltissimo e su cui ho scritto la mia tesi di laurea), Antonio Tabucchi.

Andrea ha portato nella vita di molti tante cose. Ha riempito di amore, dedizione e gratitudine quella della mia amica Giovanna. Lei in cambio gli ha regalato sorrisi, anche quando da sorridere qualcuno avrebbe trovato ben poco.

Sorrideva anche oggi. Una parola bella per tutti noi.

Sorrideva anche oggi, mentre dava l’ultimo saluto ad Andrea.

Che, ora, riposa a Sestola. Proprio vicino a dove è ambientato il suo libro. Un libro sul ricordo, sul dubbio, sulle relazioni mancate tra passato e presente e su quelle recuperate.

A lui dedico un pensiero pieno di stima. Alla mia amica un abbraccio che non basterà

Invito voi a prendere il suo libro. L’opera prima di uno scrittore esordiente di grande talento, che se n’è dovuto andare troppo presto.

“Mi aiuti a capire, e non chini la testa, per favore”. Parlò mentre la donna aveva mosso le labbra senza riuscire a emettere una sola sillaba, nemmeno un piccolo suono al quale assegnare un senso, presa dalla stanchezza e anche dagli anni, rivelatisi in quel momento con crudeltà: nel trucco che si andava disfacendo; nel rossetto distribuito in modo irregolare sulla bocca; negli occhi arrossati.

“Mi faccia capire cosa volevano fare, cosa vorranno fare di me.”

Andrea Menetti (1968-2012)

Debite Proporzioni, 2012, Monte Parma Università Editore

 

L’assalto all’infanzia del marketing

Come blogger non ho mai accettato di recensire prodotti.

Molte volte me lo hanno proposto ma ho deciso che non voglio farlo, che se qualcuno ha bisogno di me professionalmente, sono disponibile a valutare proposte di collaborazione per digital P.R e professional blogging, ma che i miei blog devono rimanere sostanzialmente liberi da qualsiasi forma di promozione “a comando”.

Parlo di quello che mi piace e di quello che valuto interessante a prescindere.

Lo stesso vale per i comunicati stampa che mi inviano di continuo: valuto sempre – liberamente – se segnalare qualcosa e spesso, se non c’è un link, non lo faccio, perché io sono blogger e non giornalista.

Voglio sentirmi libera di dire quello che penso senza alcun conflitto di interessi: se non condivido le scelte di una marca, voglio dirlo anche se il marketing fa parte di quello che faccio per vivere.  Citando Massimo Ferrariorifletto sul marketing e non mi piace il marketting.

Credo sia un valore aggiunto: le aziende sanno che se collaboro con loro non sarò mai a-critica, che se dovessi occuparmi di una strategia direi sempre quello che penso.

Mi piace farlo con i miei clienti (che apprezzano) e mi piace che sia un tratto distintivo del mio stare in rete.

Il mio lavoro è orientato allo storytelling, non al marketing in prima istanza e credo che proprio attraverso la possibilità di esercitare anche spirito critico, di promuovere anche visioni divergenti dalla maggioranza, si possa creare un discorso (anche intorno ai prodotti) efficace.

Ma questa è solo una premessa.

Ultimamente, forse per una questione di tempo (sempre meno quello a disposizione per scrivere sulle cose che mi interessano) la mia attività più frequente, on line, è su Twitter.

Mi prendo cura di contenuti di altri, li rilancio, li aggrego, li promuovo e nel frattempo imparo molte cose.

Seguo i flussi di contenuto che mi interessano.

Per questo motivo, probabilmente, alcune case editrici, con cui sono in contatto là, hanno cominciato a segnalarmi libri. Per questo motivo alcune di loro mi hanno contattata per propormi l’invio di qualche titolo.

Mi sono detta: “Perché no? Io amo leggere, leggerei comunque, ma così risparmio!” Il patto è che se voglio recensisco, se ho tempo recensisco, se no amen. La filosofia è che dirò sempre quello che penso di quel libro. Se qualcuno se ne avesse a male e decide che non mi manderà più libri, amen. Io leggerò comunque.

Così Feltrinelli mi ha scritto e mi ha inviato Assalto all’infanzia di Joel Bakan, un saggio con prefazione di Chiara Saraceno.

Il saggio, frutto di uno studio dell’autore intorno alle corporation americane, non è esattamente una lettura ottimistica per un genitore, ma certamente aiuta a riflettere su una questione sentissima negli Stati Uniti e forse meno acuta in Europa e in Italia, ma con cui bisogna fare i conti, perché dietro l’angolo, ovvero la trasformazione dei bambini in “consumatori diretti” e attivi del marketing.

Se la protezione del fanciullo (e relativa Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959) ha assicurato ai più giovani un periodo in cui le corporation non potevano in alcun modo rivolgersi a loro, dal 1980 le cose sono cambiate. La mia generazione è la prima ad essere figlia di un altro modo di rivolgersi al bambino: diretto e coinvolgente affinché diventi complice delle marche che di volta in volta gli vogliono vendere prodotti o esperienze.

Il marketing si è raffinato e grazie allo studio della psicologia cognitiva e della statistica ha frazionato la popolazione in target sempre più precisi, indagando abitudini, aspettative, bisogni e rivolgendosi in maniera specifica a ogni fase della vita.

Non è forse un caso, se proprio in contemporanea alla lettura del libro, sono incappata in un interessantissimo articolo di Charles Duhigg per “Internazionale” di questa settimana che anticipa l’edizione italiana del suo libro: The power of Habit.

L’articolo (e il libro in uscita) racconta del rapporto sempre più diretto tra studi statistici (applicati alle abitudini umane) e marketing, sottolineando come la scomposizione di ogni nostra azione per capire quale desiderio sottende, come viene appagato e in che modo ci gratifichiamo per compiere atti anche faticosi, abbia reso ancora più efficace la segmentazione dei target, individuando nelle mamme e future mamme il bacino più ghiotto per la pubblicità: sono infatti le donne in attesa quelle più propense a cambiare abitudini e ad ascoltare i consigli dei Media e di chi ha una referenza in tema di genitorialità.

Ma torniamo al saggio di Bakan:

L idea centrale della nuova ideologia – che il libero mercato sia il modo migliore per fare il bene dell’individuo e della società – contraddiceva apertamente le riforme del secolo del fanciullo. (…) Non esiste una cosa chiamata società, esistono soltanto individui e famiglie.

 Bambini, madri e padri diventano un mercato ghiotto, da “assaltare” e colonizzare.

Ne sanno qualcosa – stando a quanto racconta il libro – le corporation televisive americane, principali ideatrici di molti giochi on line dedicati a bambini e adolescenti: un caso tra tutti Nickelodeon che, oltre a possedere il maggior numero di reti televisive USA dedicate ai bambini, ha fondato anche Addictinggames.com, un pluripremiato network per l’infanzia. Tra i giochi più seguiti c’ é Boneless Girl: bisogna riuscire a far passare una donna “senza ossa” in tutti i pertugi possibili.

Boneless Girl è tutto sommato un gioco da educande  se confrontato con altri segnalati nel libro, come per esempio Grand Theft Auto IV, dove il protagonista fa sesso con una prostituta in macchina e poi la ammazza con una mazza da baseball, finendola con una sventagliata di mitra.

Questi sono i giochi che si rivolgono agli adolescenti americani. Perché tanta violenza?

Perché gli studi psicologici e statistici ci dicono che a 12 anni le persone hanno bisogno di staccarsi dalla visione protetta e familiare della vita e passare attraverso anche emozioni violente.

Prendi le tempeste ormonali dei giovani e gli obiettivi di vendita delle aziende, metti tutto nel frullatore e il gioco è fatto!

Il digital divide generazionale spesso poi non consente ai genitori di avere la giusta consapevolezza per maturare anticorpi a questi giochi e per poter gestire bene la “dipendenza” che creano nei propri figli.

Ma l’ assalto all’infanzia arriva anche dalle multinazionali farmaceutiche e chimiche, dai professionisti “al soldo di”, disposti a dichiarare e scrivere articoli che minino qualsiasi spirito critico nel consumatore, pur di rendere appettibile questo o quel prodotto.

E’ un panorama che a noi può sembrare estraneo, eppure, nel nostro piccolo (e forse dall’anticamera) lo vediamo perfettamente anche qui: grazie ai social network, il confine tra marketing e scelta personale, tra passaparola e targhetizzazione è diventato davvero labile e noi genitori siamo sempre i primi a essere bersagliati, perché abbiamo un naturale bisogno di appagare i desideri dei figli e aderire al modello della brava mamma e papà, che passa anche attraverso i prodotti che usiamo per la cura dei nostri bambini (specialmente primogeniti).

C’è da riflettere, specie per chi – come me – si occupa di comunicazione e lo fa, ovviamente, in ottica narrativa ma per promuovere prodotti.

Come professionista, credo che la domanda giusta che posso farmi io, ogni mattina, sia: “Sono davvero libera di scrivere e dire quello che penso?” e comportarmi di conseguenza, a seconda della risposta che ogni giorno mi do e del contesto di riferimento.

Come genitore, la domanda giusta è: in che modo posso aiutare mia figlia ad affrontare questo? Di sicuro non posso evitare ne’ censurare e dunque, come per la televisione, come per qualsiasi comunicazione, devo solo provare ad aiutarla a sviluppare un suo spirito critico, a farla riflettere sulle cose senza darle per assodate o scontate.

E non è poco.

E non è detto che sia possibile.

Però ricordiamocelo sempre: siamo carne da macello del marketing. Tutti. Ma il marketing non è il MALE: ogni cosa dipende da come la affronti. Sta a noi scegliere come operare delle scelte che – per quanto piccole – siano sempre scelte nostre.

Letture

  • Assalto all’infanziaJoel Bakan, Feltrinelli Editore
  • La forza delle abitudini, Charles Duhigg “Internazionale” n 946, pg 44