Grazie agli amici di FF, sul sito di Paolo Nori trovo questo articolo (?), post (?), pensiero (?) sulle biciclette che mi fa venire in mente che a me, di biciclette, mentre corre l’anno 2010 e anche quando correva il 2009, me ne hanno rubate due. Una nel cortile di casa nostra.
Andare in bicicletta, nell’anno 2010, in una città come Tortellini city, anche se è una delle città dove dicono si sta meglio in Italia come qualità della vita, è un terno al lotto con la morte e con il furto.
Con la morte perché malgrado le piste ciclabili – che ce ne sono alcune abbastanza ridicole, tipo che si chiamano così perché hanno disegnato delle bici sui marciapiedi ma alla fine ci vanno comunque i pedoni – tutti ai ciclisti vogliono poco bene e – in generale – devi fare attenzione a autobus, macchine, camion, anziani con la zanetta, mamme con passeggini, cani che smollano il guinzaglio e bambini in triciclo, componendo delle gimcane che anche Fausto Coppi c’avrebbe dei problemi a tenere il manubrio.
Il lotto te lo giochi con il furto perché in questa prosperosa città universitaria c’è sempre qualcuno pronto a fotterti il mezzo – e a nulla valgono doppie catene, antifurti di fortuna, bic con il proprio nome infilate nella canna e cose del genere – che poi tanto ti ritrovi la bici pittata a nuovo in vendita in via Zamboni e alle volte vien più facile riacquistarla a uno studentello che fare regolare denuncia.
Però anche per me, che di anni ho scoperto da poco di averne 36 e non 37 compiuti (come invece mi credevo fino a quando una vecchia amica non mi ha fatto fare bene i conti), ci sono stati dei tempi in cui la bicicletta potevo lasciarla senz’altro senza catena.
Erano i tempi in cui vivevo al paesello e la mia bicicletta si chiamava Camilla e ci avevo scritto sopra il nome e delle frasi e anche i miei amici ci avevano fatto le firme.
La Camilla era la mia fida compagna e noi insieme andavamo ovunque e io la appoggiavo ai muretti della piscina, al cancellino di casa e all’albero dove ci arrampicavamo per essere lasciate in pace, con le mie amiche.
Io con la Camilla, nelle sere d’estate, andavo sempre a farmi un giro, dopo cena e mi infilavo nella via che mi piaceva di più del paese, che non mi ricordo come si chiama ma io chiamavo la via delle lucciole perché a giugno era proprio invasa e sembrava di stare in un planetario stradale.
Erano lucciole vere, di quelle che dicono che con l’inquinamento si sono un po’ diradate, non lucciole dei viali.
Io passavo per la via delle lucciole con la Camilla, canticchiando il motivetto di questa pubblicità che a me faceva sognare (ero anche un po’ innamorata del protagonista) e speravo di incontrare un ragazzino che io chiamavo Cornetto alla panna, il quale mi piaceva un sacco anche se non avevo mai avuto il coraggio di rivolgergli la parola.
Con la Camilla, nelle lunghe giornate di ozio estivo ce ne andavamo anche a fare le gite per le colline, con le mie amiche, che tipo una volta partimmo e io caricavo la Veronica e arrivammo lontanissimo, nella valle di fianco e io proposi di tornare “per una scorciatoia” che poi scorciatoia non era e ci ritrovammo a scollinare in un’altra valle ancora che alla fine ci eravamo un po’ perse e non c’erano mica i cellulari per chiamare la mamma!.
Ma tanto in quegli anni ottanta, devo dire, per noi ragazzini di paese la vita era abbastanza libera. Non so se fosse per via che non si sentivano brutte storie al telegiornale, anche se già c’erano (anche a Bologna), o perché da genitori ci si metteva meno ansie di oggi, ma io a 14 anni potevo veramente stare fuori interi pomeriggi che tanto sembrava comunque di essere in un mondo protetto e un po’ bucolico.
Io avevo paura dei pozzi nel terreno, a causa di Alfredino che aveva segnato profondamente il nostro immaginario di bambini e di cui ancora ricordo la voce flebile uscire dalla televisione e spegnersi con essa.
Una volta ci capitò in effetti che andammo a fare un pic nic sopra il laghetto alto e c’era un buco profondo nella terra sotto l’albero e il mio cane che era con noi stava per finirci dentro.
Comunque, con me c’era sempre la Camilla e poi il rampichino che era una mountain bike ma allora lo chiamavamo così.
E io tutte queste biciclette le appoggiavo e mi fidavo perché – forse come dice Nori – le bici erano come facce e sulla mia c’era perfino scritto il nome (anzi, il soprannome che valeva più di qualsiasi cognome!).
Poi con il tempo mi è sempre rimasto un legame particolare con le bici e anche quando mi sono inurbata che mica avevo la macchina e anche i soldi erano pochini, avevo acquistato al discount una mountain bike rosa e giravo sempre con quella. Estate e inverno.
Ci giravo talmente tanto che dopo la pioggia, visto che non aveva i parafanghi, si poteva capire che la sottoscritta arrivava in bicicletta per gli sbafi di terriccio lasciati dietro i pantaloni.
Ci giravo alla notte e al giorno e ci andavo per tutta la città e devo dire, quella bici lì, nessuno me l’ha mai rubata perché era abbastanza brutta.
Me l’ero montata io. L’avevo acquistata per lire 25 al discount nel 1996 e me l’ero montata io perché con un prezzo così non si erano presi la briga di dartela costruita.
Mi inorgogliva questa cosa che avevo fatto tutto da sola e forse per questo, anche se era brutta e anche rosa e a me il rosa non piace tanto, le volevo molto bene.
Comunque a leggere Nori e a ripensare alle biciclette, mi viene in mente che nel passato a me le bici hanno composto delle storie e un filo rosso con la vita e forse deve essere per questo, riflettendo, che anche ora che me ne rubano una ogni respiro, io mi affeziono sempre e tutte le volte ci rimango un po’ male e dopo, alla bici successiva, mi viene perfino la malinconia per i freni che non funzionavano delle precedente e finisce sempre che mi sento anche un po’ in colpa perché non ci ho dato un nome e me l’hanno portata via così, senza che io possa piangere un qualcuncosa.
E voi? Voi ce le avete delle storie speciali con le biciclette?
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