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insostenibile pesantezza essere

102 chili a Chiavari il 6 maggio

Il 6 maggio 2022, alle 17 partecipo a un talk a Chiavari durante il quale racconterò la mia esperienza di scrittura durante il periodo della muta, quello che ho narrato nel libro 102 chili sull’anima, sul mio percorso per uscire dall’obesità. Ti aspetto e se vorrai, avrò alcune copie della nuova edizione del mio libro e potremo incontrarci.

L’evento si intitola Obesità: l’insostenibile pesantezza dell’essere (scarica la locandina con il programma)

La preregistrazione è consigliata e la fai qui: www.symposiacongressi.com 

 

 

13 febbraio: 102 chili a Napoli

Il 13 febbraio 2016 presento 102 chili sull’anima: la storia di una donna e della sua muta per uscire dall’obesità al Teatro Diana di Napoli alle 11.30 del mattino. L’ingresso è gratuito e mi leggerà l’amica e professionista Fabiana Sera.

Non vedo l’ora di essere nella città partenopea e vi aspetto in tantissimi sabato!

Il Teatro Diana è in Via Luca Giordano, 64, 80127 Napoli.

Sarà possibile acquistare il mio libro e al termine della presentazione interverrà anche la Dott.ssa De Blasio di Clinic Center per approfondire il tema dell’obesità e della prevenzione in correlazione ai problemi di cuore.

teatrodiana

Sei troppo grassa, sei troppo magra: tutti a parlare del corpo degli altri

Notizie sparse sul web e la mia esperienza, mi hanno portato a riflettere molto, ultimamente, su quanto – in generale – si sia inclini a giudicare senza mezzi termini il corpo degli altri mentre facciamo tanta fatica a guardare al nostro.

Durante la mia muta ho scoperto, alla tenera età di 40 anni, che ho le ossa piccole. Continua a leggere

102 chili sull’anima: la presentazione a Bologna il 18/6

 L’anteprima a Bologna

Giovedì 18 giugno, ore 18

presso la libreria Feltrinelli

P.zza di Porta Ravegnana, Bologna

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9 mesi dopo avere perso 40 chili: cos’è cambiato?

Sono passati 9 mesi da quando ho finito la mia dieta.

Era maggio e avevo perso 30 chili. La nutrizionista mi ha dato il piano di mantenimento e ci siamo salutate. Da allora fino a settembre ho perso altri 10 chili.

Che cosa è successo in questi mesi? In che modo la dieta e la mia muta hanno cambiato RADICALMENTE la mia vita?

IL PESO

Innanzitutto mi preme dire che per il momento il mio peso è stabile da settembre: oscillo tra i 60 e i 61 chili a seconda del mio stato fisico, dello stress e del momento della giornata.

Ho toccato anche i 59 chili, ma evidentemente il mio corpo per il momento vuole stare a 60 perché quando è successo mi sono sentita debole e ho avuto bisogno di mangiare un po’ di più per tornare a 60 chili. Sono alta 1,68 cm perciò, secondo le tabelle, potrei anche pesare 58 chili ma faccio anche molto sport ed evidentemente il peso giusto per me è proprio questo.

LO STILE DI VITA

Mangio in maniera equilibrata (né troppo, né troppo poco) e – salvo eccezioni – faccio a meno dei latticini e la pasta la mangio solo durante pranzi di famiglia o quando esco. Da circa un mese ho deciso di diventare una “vegetariana liberale”: mangio la carne solo se vado a cena da altri. Durante la settimana integro le proteine con una maggiore varietà di legumi e ho introdotto il seitan.

Faccio sport in maniera costante ma tutto sommato moderata: 2 ore di nuoto a settimana (mi sono iscritta a un corso per avere un appuntamento fisso e un allenatore che mi segua) e 1/2 ore di corsa disperse nel resto dei 7 giorni. Per chi mi legge per la prima volta mi preme chiarire che sono arrivata a questa tabella di allenamento non all’improvviso ma nel corso di un anno, in maniera graduale, partendo da camminate di mezz’ora, tre volte a settimana. Impossibile fare altrimenti, visto che prima gli unici muscoli che usavo attivamente erano quelli delle mandibole 😉 (che poi forse non sono nemmeno muscoli).

Cammino tutte le volte che ci riesco e i miei spostamenti sono o a piedi o in bicicletta.

LA MUTA RADICALE

La mia vita non è più la stessa. Non credo di riuscire a dire in un unico post su quanti fronti questa esperienza mi abbia modificata. Proverò a iniziare ma spero di trovare le parole. Innanzitutto ci ho messo un po’ ad abituarmi al mio nuovo corpo. Ho perso il 40% del mio peso corporeo e ancora oggi, quando mi osservo nuda allo specchio, ci sono momenti in cui faccio fatica a riconoscermi. E’ stata dura per me e lo è stato anche per gli altri: per alcuni mesi ho dovuto ripresentarmi a chiunque incontrassi, persino mia zia ha stentato a riconoscermi. In famiglia è subentrata una nuova percezione della sottoscritta: mia figlia e Tino hanno cominciato a vedermi andare a correre, in piscina e fare attenzione al cibo. E’ stato graduale, ma non significa che abbia cambiato alcuni equilibri nella relazione. Chi conosco oggi e non sa del mio percorso (ed è una gioia essere una persona “nuova”) se ci si trova a parlare di sport, mi fa capire che mi percepisce come una persona molto in forma e molto energica e forte.

Frollina l’altro giorno, in un tema in cui parlava anche di me ha scritto: “Mia mamma è molto forte e corre veloce”. Mi ha commosso molto questo suo nuovo sguardo sulla sottoscritta.

Ma la muta, quella vera, è avvenuta nella mia testa e non riguarda solo le relazioni personali ma anche il mio approccio al mondo e al lavoro.

Sono centrata, che per me significa che ho capito finalmente qual è il mio posto nel mondo, dove voglio arrivare e cosa posso dare, in quale ambito. Ho allontanato le persone tossiche della mia vita e non credo che sia un caso se non mi capiti più di incontrarle. Tengo a distanza anche chi vorrebbe succhiarmi energie: chiamatela cattiveria o cinismo, per me è pura sopravvivenza e mancanza di tempo da perdere. Chi ha un po’ di visibilità nel suo piccolo ambito, anche se è l’ombelico del mondo, attrae su di sé energie positive ma anche un sacco di “zecche”: io prima non sapevo riconoscerle e mi sono fatta succhiare il sangue, ora le naso e le tengo a distanza.

Serenamente.

Durante il 2014 sono stata totalmente concentrata sulla dieta e sulla muta e ho perso un po’ di vista il lavoro, i miei obiettivi e dove voglio arrivare. A settembre mi sono resa conto che dovevo riprendere in mano la situazione e l’ho fatto. Malgrado il panico (una lavoratrice autonoma come me guadagna se produce, se no non ha uno stipendio) mi sono messa a testa bassa. L’ho fatto partendo da una consapevolezza: “Se sono stata in grado di perdere 42 chili, sarò in grado di focalizzarmi sul lavoro!”.

Ho scritto un libro (e l’ho fatto prevalentemente di notte) in cui ho messo dentro quello che ho imparato in tanti anni come professionista e poi ho ridefinito i miei obiettivi professionali e ho tentato di comunicarli in maniera efficace.

Perché?

Perché prima non ero convinta di valere e questa mancanza di convinzione, questa paura di essere inadeguata al mio ruolo, mi faceva anche essere poco convincente con gli altri. Non me ne rendevo conto, scambiavo la mia insicurezza per modestia e così non arrivavo davvero da nessuna parte. Ho tante frecce (professionali) al mio arco, ma le sparavo a caso.

Ho preso carta, penna e testa e mi sono messa a scrivere parole, a pensare a dove voglio arrivare da qui ai prossimi 5 anni. SENZA PAURA. Ho tagliato tutte quelle parti del mio lavoro che producono troppi sforzi e raggiungono pochi risultati (in termini anche economici) e ho puntato solo su alcune cose, che sono il VALORE PERCEPITO dagli altri rispetto alle mie competenze e ho fatto in modo che questo valore andasse a braccetto con i REALI BISOGNI e dunque con la possibilità di compiere investimenti da parte delle AZIENDE.

Ho anche messo nero su bianco gli elementi di debolezza da migliorare e ho investito tempo e soldi per iscrivermi a corsi di formazione per farlo.

Dopo avere usato molti fogli, avere fatto molte mappe mentali, ho preso il mio portatile e ho costruito un piano (forse è un vero e proprio business plan, ma io preferisco chiamarlo “il mio piano”). Ho anche fatto una lista delle competenze su cui voglio investire e le ho trasformate in parole chiave. Ho fatto pure un “listino prezzi” chiaro e lineare e – come se io fossi un’azienda – un’ipotesi di guadagni per il 2015 che è il mio obiettivo.

Poi a dicembre è stato pubblicato il libro Narrarsi online: come fare personal storytelling e  – inaspettatamente – ha avuto subito un successo che non avrei mai immaginato. Ma perché non lo avrei mai immaginato? (si torna al paragrafo “insicurezza” che fa rima con “anima nera”). Sono rimasta in apnea per 2 settimane, dopo la pubblicazione, fino a quando i primi commenti positivi non sono cominciati ad arrivare. E quando anche Luisa Carrada (che è un po’ la mia maestra e potrei annoverarla in quello che io chiamo “retroterra culturale” della sottoscritta) mi ha fatto i complimenti con un tweet, dopo avere pensato che forse le avevano hackerato il profilo, ecco io mi sono sentita davvero contenta, ma poi mi sono sentita anche un po’ sciocca: conosco il mio lavoro, mi hanno chiesto di scrivere un libro, dovevo essere più consapevole del fatto che – al di là che si può sempre migliorare – forse non stavo per pubblicare un’enorme cacca puzzolente come invece, in certi momenti, avevo immaginato.

Da una settimana il mio libro è il 1 più venduto in Internet e Industria e studi di settore su Amazon e ovviamente gongolo molto per questo (e ringrazio chi lo ha acquistato!).

Diventerò ricca grazie a questo libro? No. Non l’ho scritto per diventare ricca ma per:

  • contribuire con quello che so ad argomenti che hanno a che fare con il mio lavoro e la mia esperienza di personal storytelling
  • organizzare e riordinare contenuti sparsi che uso quando faccio formazione
  • aumentare la mia autorevolezza riguardo a quello che faccio, ovvero marketing narrativo grazie allo storytelling

Sta funzionando? Alla grande! Il libro + il nuovo sito + la mia testa bassa e la rifocalizzazione degli obiettivi mi stanno consentendo di puntare a poche cose ma ben definite, di dire no a offerte che non sono in focus con la mia strategia di crescita e dire si a proposte interessanti che sono arrivate ANCHE grazie il libro.

Ah e rispetto al tema “Diventerò ricca?” se un tempo vivevo come debolezza il desiderio di alcuni di esserlo, oggi rispondo che IO SPERO DI DIVENTARE RICCA ma non perché voglio costruirmi la piscina ma perché sono BRAVA NEL MIO LAVORO dunque sarebbe il giusto compenso per quello che produco.

Non sono più la stessa di prima e le persone lo vedono. Non mi sento più in colpa se non rispondo alla decina di mail quotidiane che mi arrivano da parte di persone che vorrebbero che gli “regalassi” le mie competenze, per questo falso mito che se una ha un blog e scrive molte cose, ne può regalare ancora di più.

Non sono io.

Quello che metto a disposizione (ed è tantissimo) è qui e sul mio sito professionale, il resto è consulenza e come tale va pagata. Se a qualcuno non va bene, amen, non credo più di dovermi nutrire dell’amore incondizionato di chiunque 😉

Soffro anche meno di ansia, sono molto più futile, mi piace fare shopping e non ho più quella rabbia nei confronti delle cose del mondo che non vanno che avevo prima: so che non posso cambiare tutto e che posso fare poco, ma quel poco lo faccio, volentieri, ogni giorno, nel mio piccolo.

Certe persone forse le ho perse insieme ai 40 chili, ma era fisiologico che capitasse e a 41 anni ho ben capito che insieme agli altri (chiunque) facciamo solo dei pezzi di strada: c’è chi ci sta accanto per più tempo e chi per meno, ma a volte le strade non sono le stesse ed è onesto e affettuoso nei confronti gli uni degli altri rispettare le singole scelte.

Io ora ho la mia strada, condivisa con poche e selezionatissime persone nel privato, con tante e interessanti persone nel pubblico.

E per la prima volta nella vita so qual è quella strada.

Non ho più piombi ai piedi, ho imparato a correre e a essere leggera e sono certa che – malgrado zone dissestate che ci saranno sicuramente – saprò percorrerla.

[foto in anteprima di @Federico Borella]

Il peso della discriminazione. Discriminazione per il peso

Una terribile violenza ha toccato un ragazzino perché obeso e subito dopo una politica belga è stata criticata perché – obesa pure lei –  è Ministro della Salute. Qualcuno si è chiesto se è credibile un Ministro della Salute che ha seri problemi di salute. Battista, sul Corriere, scrive un commento dal titolo: “Quegli insulti consentiti soltanto contro gli obesi” e oggi il dibattito si è aperto anche nella mia timeline di Facebook: un dibattito che mi ha fatto fare alcune riflessioni su un tema, che sapete, mi è molto caro.

Sabrina Ancarola (che gestisce il blog Mini racconti cinici) scrive:

Sono anni che mi batto contro la discriminazione ponderale e insieme a questo ho visto esempi meravigliosi di persone che hanno perso peso scegliendo il movimento che più ritrovava congeniale al proprio essere e una sana alimentazione. Ne parlavo anche con Giorgia Vezzoli che il tuo esempio è incoraggiante per molti anche perché tu, al contrario di altri, hai parlato senza giudizio della tua esperienza. Lottare contro le discriminazioni dovrebbe includerle tutte e questa appunto come dicevi appare subdola. Troppe persone giudicano, indicano facili ricette da applicare a tutti ignorando completamente le svariate cause che possono portare all’obesità. Anche stamattina ho sentito per l’ennesima volta che i grassi lo sono perché privi di volontà, che è colpa loro. Fra l’altro lo sfottò verso i grassi è giustificato perché molti pensano che questo possa essere uno stimolo affinché si decidono a porre rimedio alla loro condizione

Discriminazione ponderale.

Io non mi sono mai sentita discriminata professionalmente o umanamente dalle persone che mi conoscono per via del mio peso, ma di certo la strada – quando ero obesa – era molto più in salita. Le situazioni (o atteggiamenti) che sentivo come discriminatori riguardavano l’approccio al (mio) problema. Alcuni medici che ho incontrato lungo il percorso (non tutti, non sempre) non andavano oltre a banalissime considerazioni: “Sei obesa, ti stai facendo del male, devi dimagrire!” che sortivano il doppio effetto di farmi sentire una cretina (o almeno di darmi l’impressione che pensassero che fossi scema, dato che il loro riscontro non poteva essere che oggettivo e certe cose le vedevo anche io) e di farmi mangiare di più per “sedare” quel senso di disfatta. So che erano pieni di buone intenzioni, che tentavano solo di essere coerenti con le norme-ministeriali-per-il-contrasto-all’obesità ma sembrava davvero che affrontassero il problema con un approccio superficiale e doveristico. Nessuno, fino a quando non ho scelto io, mi ha mai chiesto perché fossi ingrassata, perché avessi un certo rapporto con il cibo e con il mio corpo.

Un’altra categoria particolarmente odiosa per me, per la mia sensibilità di donna obesa, era quella delle commesse dei negozi di abbigliamento. Non tutte, per carità, ma capitava spesso – quando “osavo” entrare in un negozio per donne “normali” – che qualcuna mi guardasse sprezzante e si lasciasse andare a commenti sarcastici legati all’impossibilità di vestire taglie oltre la 46. Non faccio una colpa nemmeno a loro, per carità, non mi aspetto che una commessa debba avere per forza un’attitudine alla psicologia, non è mica quello il suo lavoro. Però credo che siamo un po’ tutti troppo ossessionati dall’aspetto fisico e la divergenza alla norma non è socialmente accettata, il che non è un problema solo per le persone obese (o per chi è molto magro), ma lo è per chiunque non assomigli a un manichino.

Ci sono stati poi commenti cattivi di sconosciuti (spesso uomini, spesso anziani o ragazzini) qualche presa in giro (anche amichevole) e una lista infinita di momenti in cui mi sono sentita molto a disagio a causa del mio corpo (ma anche questo, forse, riguardava più la percezione di me piuttosto che la percezione reale degli altri).

Quando ero ragazzina (e pesavo tale quale a oggi, quindi ero tutt’altro che sovrappeso), qualcuno mi diceva che avevo la faccia troppo tonda (e per questo era meglio non mi tagliassi i capelli corti, non mi facessi permanenti anni ’80 o cose del genere), qualcuno sottolineava come – avendo io un seno importante – dovevo assolutamente essere molto magra se no sarei sembrata, comunque, paffutella.

A parte queste cose, non ho memoria  di discriminazione “diretta”. Di certo, mi hanno sempre infastidita le dichiarazioni di quanti e quante stigmatizzano e stigmatizzavano il grasso, come se una persona grassa certe cose non le può fare perché se no sarebbe incoerente (vedi Ministra). Mi ha sempre infastidito molto anche il fatto che se si parla di obesità, si finisca sempre per sottolineare quanto l’obesità sia “un costo sociale”. Non perché non pensi che sia così. Lo sappiamo tutti che i malati ci costano e una persona che si fa del male da sola (mi riferisco a chi è obeso non per cause metaboliche) diventa un peso per la società in qualche modo, ma questo insistere sul punto non è – secondo me – di nessun aiuto. Gli obesi diventeranno solo più obesi.

Perché l’obesità riguarda prima di tutto un approccio al mondo: in qualche modo le persone che si condannano a questo stato lo fanno per un profondo disagio (che non ha nulla a che fare con stupidità, tutt’altro!) e questo genere di argomentazioni le porterà solo a sentirsi più isolate, sole, a cercare ancora di “recuperare” attraverso il cibo.

Bisogna smetterla, secondo me, di mischiare troppi piani differenti. Quando si parla di obesità si fa un gran casino e si confonde salute con aspetto fisico e quando si “sprona” una persona obesa lo si fa, per lo più, senza alcun rispetto della sacralità del corpo dell’altro (e qui cito Silvia Sacchetti che una volta ha scritto che “il corpo è sacro”).

Dunque: una persona obesa (se vuole) dovrebbe dimagrire perché consapevole dell’importanza della sua salute. Ma per esserne consapevole bisogna iniziare a volersi bene e cercare di capire – profondamente – perché si è ingrassati, prima ancora di cercare di cambiare stile di vita.

L’aspetto fisico dovrebbe proprio passare in secondo piano. Dovrebbe passare in secondo piano per chi vuole uscire dal disagio e dovrebbe passare in secondo piano a livello sociale e culturale (questa la vedo dura, ma potremmo provarci tutti insieme no?).

Il rispetto del corpo (nostro) e degli altri, dovrebbe invece essere prioritario per tutti. Che tu sia magro, che tu sia grasso, che tu sia basso, che tu sia alto, c’è sempre qualcuno pronto a giudicare il tuo corpo. Siamo abituati a parlare del corpo degli altri, a leggere del corpo degli altri (le vip che mettono su cellulite, le vip che non sono al top della forma, le amiche che prendono qualche chilo, i conoscenti su facebook che postano una foto…) e a farlo con una disinvoltura che non ci permette mai di riflettere sul peso che possono avere  le nostre affermazioni.

E qui cito un post che mi ha colpito molto, di Lola  e che consiglio di leggere tutto:

Una ragazzina che viene in piscina con me quest’anno non ha ricominciato il corso.

Suo padre mi ha detto che “si è inquartata” (ingrassata, alla romana) e che anche se il medico ha consigliato di fare movimento, lei non è voluta tornare in piscina. “E poi peccato, perché era pure forte”, mi ha detto.

Ho pensato a quella parola: “inquartata”.

So per certo che lui non voleva usarla in senso dispregiativo e da come mi parlava mi è parso chiaro che fosse sinceramente dispiaciuto per la scelta della figlia. Il problema mio è che a certe cose, a certe parole, ci ripenso.

Lola sottolinea come anche quando si dice che “l’aspetto fisico non è importante” spesso si tratti di una frase vuota e concordo. Aspetto fisico, rispetto: quanto poco leghiamo questi due termini e quanto troppo ci attacchiamo alle divergenze per auto escluderci dal mondo e per escludere chi è diverso.

Come dice l’amica Giorgia Vezzoli serve un’educazione alla diversità, a tutte le diversità. Ci serve per accettare noi stessi e spronarci (davvero) a migliorare e stare bene, serve ai nostri bambini perché vedano un mondo a colori, senza accontentarsi dei troppi bianco e nero.

Serve un contesto in cui sei come sei e il cambiamento torna ad essere nelle tue mani, non in quelle di vuoti canoni estetici e nemmeno in quelle di una sanità che ripete a pappardella.

Serve un contesto in cui le varie Panzallaria possano arrivarci prima e meglio alla consapevolezza che il senso di inadeguatezza non è qualcosa che dipende dall’esterno ma solo da un modo di interpretare se stessi e che non esistono corpi (in)adeguati ma solo corpi “percepiti” e che è tutto nelle nostre mani.

 

Potevo essere io: di aria compressa, violenza e obesità

Una volta uno, quando pesavo più di 100 chili, ha fatto un commento con un amico mentre passavo. “Si fa prima a saltarla che a girarle intorno!”. Un’altra volta – stavo portando Frollina alla scuola materna –  mentre passavamo davanti a un bar con dei tavolini all’aperto e tanti anziani, uno di questi anziani ha chiesto (a voce alta, in modo che sentissi) al suo vicino se secondo lui ero solo molto grassa o incinta.

Frollina ha riso e anche io.

Perché a volte quando uno sconosciuto ti umilia pubblicamente per qualcosa di così evidente come il tuo peso, l’unica cosa che puoi fare è ridere. Ridi per non piangere, ridi per non affogare nella vergogna, ridi per non dargliela vinta. Stai quasi al gioco, in qualche modo, perché tu ti senti una persona migliore di tutte queste merdine che giudicano il corpo degli altri. Si, ho scritto e penso “merdine”.

Nessuno mi ha mai infilato un tubo d’aria compressa nel culo, però, quando ero molto grassa.

A un ragazzino di 14 anni è andata diversamente. 3 ADULTI (e sottolineo 3 ADULTI) di 24 anni, ieri hanno deciso di divertirsi un po’ con il “ciccione” e gli hanno sfasciato il colon violentandolo con un tubo di aria compressa.  Intorno a loro un sacco di gente a filmare la simpatica scenetta.

Il ragazzo è in prognosi riservata all’ospedale mentre i genitori dell’esecutore materiale difendono il gesto del figlio: “Era solo uno scherzo, un gioco”.

Ne abbiamo fatti tutti di scherzi, a 24 anni. Per esempio a me una volta mi hanno fatto fare una chiamata in diretta radio, che ancora dormivo. Un’altra volta sono stata io a tappezzare la casa di un’amica, per scherzo, di carta igienica.

Ma no.

Infilare una pistola d’aria compressa nel culo di una persona non è uno scherzo.

Per altro, ecco, a 24 anni non si dovrebbe avere bisogno della mamma e il papà che ti difendono: sei adulto, responsabile delle tue azioni, dovresti dircelo tu che cosa stavi facendo e perché.

Ma quelli che mi colpiscono sono i corresponsabili di questo gesto, ovvero i tanti che – smartphone alla mano – filmavano tutto o i passanti che ridevano, senza alzare un dito.

Insomma, quelli che mi colpiscono di più sono i tanti “noi” presenti: perché – come dico ai ragazzini a scuola, quando vado a fare educazione digitale e contrasto al cyberbullismo – per sviluppare anticorpi a questo genere di fenomeni, non basta puntare il dito, non basta dire “Io non lo avrei mai fatto!”.

Facile a conti fatti, quando si conosce tutta la storia, quando la cronaca ha già dato giudizi e trovato colpevoli.

Ma proviamo un attimo a metterci nei panni di uno che passa di lì per caso, magari  ha fretta, e viene richiamato da risate e urla.

C’è folla, c’è gente che ride.

Sembra quasi di stare al cinema.

Questo tizio che potremmo essere noi per un attimo rallenta il passo, guarda, capisce che sta succedendo qualcosa.

Questo tizio però ha fretta. Tutti ridono. Cosa starà mai succedendo? Probabilmente una ragazzata e lui deve rientrare a casa per preparare la cena.

Mettiamo poi che questo tizio, dentro le cui braghe ci siamo messi, è un ragazzino, non deve tornare a preparare la cena, non ha nemmeno tanta fretta a essere chiari.

Questo tizio, frequenta la scuola media o quella superiore, non lo so, non glielo ho chiesto,  magari ci ha pure un moto di disgusto.

Quelli “popolari” della scuola però ridono, quelli “popolari” della scuola però filmano. Sembrano allegri. Il ciccione è davvero uno sfigato.

Che senso ha – pensa il tizio – che io mi metta a urlare all’ingiustizia che poi finisce che me li metto tutti contro e la mia vita sociale è rovinata?

Ecco, io credo che noi dobbiamo tutti fare uno sforzo per pensarci a lungo dentro a una scena così, per chiederci cosa avremmo fatto e cercare di essere il meno ipocriti possibile.

Perché fino a quando daremo la colpa al contesto sociale “E’ successo in un quartiere degradato di Napoli, bella forza!” o ai genitori “Con un’educazione così, cosa vuoi che facciano certi individui?” o a una certa ideologia (il post è bello e condivisibile, ma io sul finale non sono tanto d’accordo) saremo sempre costretti a una ripetizione infinita di questi eventi.

Magari non cambia comunque un cazzo, ma l’unica cosa che mi sento di potere fare io è quella di affrontare questa bestia nera come qualcosa di connaturato anche a me, per capire come domarla e come cercare – nel mio piccolo di mamma – di fare in modo che Frollina non si senta mai nel diritto di giudicare gli altri e condannarli.

Viviamo in un mondo dove è quasi sempre tutto bianco o nero, lo vediamo in politica (“O sei con me o sei contro di me”), lo possiamo osservare – molto banalmente – su facebook: scrivi una cosa e c’è sempre qualcuno pronto a giudicare, a dire che è sbagliata o a credere che un commento estemporaneo al flusso della vita sia qualcosa di assoluto e dunque che sia lecito incasellarti.

Viviamo in un mondo dove le deviazioni allo standard spaventano, sono perseguibili: una persona grassa deve per forza essere stupida, una persona grassa deve per forza meritarsi di essere presa (in questo caso letteralmente) per il culo.

Lo dico anche per esperienza personale. Sono stata molto grassa. Oggi sono normopeso. Sono dimagrita abbastanza bene da non sembrare (fisicamente) di avere un passato da donna obesa. Ora qualcuno mi dice di fermarmi, di non diventare anoressica. Come se – per forza – se si cambia molto, si debba passare dall’altra parte della barricata e costringersi a stare male di nuovo, in un modo nuovo. So che la percezione della sottoscritta da parte degli altri è cambiata, so che per la maggior parte delle persone che conosco quel che ho fatto è ammirabile, stimabile. So che i miei amici sono felici. Ma vedo in alcuni anche la paura. La paura del nuovo, la paura del cambiamento.

Così come, quando ero molto grassa, riuscivo a vedere altre cose, alcune belle, altre brutte. E li sentivo quei giudizi lì, tagliati con l’accetta, dei tanti sconosciuti che incontravo sul mio percorso e che mi davano un colpo d’occhio e immediatamente decidevano due cose, ovvero che ero debole e stupida.

E no, non sono paranoie.

Credo che chi – come me – ci è passato, sappia bene l’umiliazione, sappia bene la vergogna, sappia bene la paura di confrontarsi con la certezza di avere perso in partenza.

Ma nemmeno io sono immune. Nemmeno io mi sento esente dalle tante domande che una storia terribile come questa mi pongono.

“Cosa avrei fatto io se fossi passata lì davanti?”

“Sono certa al 100% che mi sarei fermata, avrei chiamato la polizia, avrei fatto DAVVERO qualcosa per aiutare questo ragazzino?”.

Rispondermi che no, non ne sono certa, è l’unico modo che ho per rimanere una persona resistente.

 

 

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