alluvione bologna 19 ottobre, via Saragozza

La memoria non si infanga. L’abito da sposa

Ho scritto il racconto che stai per leggere perché sabato scorso ho pubblicato questa foto su Instagram e poco dopo mi ha scritto una persona che conosco, raccontandomi che tra i volontari c’era anche sua figlia, coetanea della mia.

alluvione bologna 19 ottobre, via Saragozza

Mi ha raccontato di un abito da sposa e di una signora gentile e mi ha chiesto di raccontare la storia del fango che si è portato via un mucchio di cose, compreso questo antico abito da sposa. 

Ho romanzato. Inventato. Immaginato. Perché nessun fango infanghi la memoria degli oggetti di tutte le cantine allagate in giro per l’Italia. 

Il 19 ottobre è toccato alla mia città, Bologna. 

Se hai perso qualcosa che amavi, se vuoi che racconti la storia di un oggetto che avevi in cantina o in casa e che il fango ha infangato, scrivimi. Sono a disposizione sia pre inventare una storia sul tuo oggetto sia per raccontare quella che vorrai tu. 

Perché la memoria non vada mai infangata. 

Ed ecco il primo racconto per il progetto “La memoria non si infanga”

Ho messo via la bambola della Milena insieme a quell’orsacchiotto con gli occhiali, quello che le aveva regalato il morosino quando era una cinna per prenderla in giro perché diceva che era secchiona, che ai tempi in cui faceva scuola mia nipote voleva dire che la Milena, per tutti, era una gran studiosa.

A casa loro non ci stava più niente e così quando si sono trasferiti, mi hanno chiesto se potevano mettere da me un po’ di cose che non gli servivano più, giù nella mia cantina di via Saragozza.

Ho detto va bene, che io là sotto ci tenevo solo qualche fotoromanzo, dei vecchi mobili dopo che in casa li avevo cambiati e poi dei vestiti che avevo tenuto a lungo nell’armadio ma poi erano perfino passati di moda dal gran tempo che li tenevo lì. 

L’abito del mio matrimonio lo avevo riposto con cura in una busta di plastica e poi dentro una scatola colorata che verso il 2010 ho perso la speranza che la Milena volesse usarlo.

L’ho tenuto nell’armadio un sacco di tempo, vicino alla pelliccia che mi aveva regalato Mario quando ho compiuto 40 anni e che ogni estate riponevo con cura, in mezzo alla naftalina, per non farla rovinare. 

L’abito era bello, ero stata una sposina molto invidiata nel 60 quando mi ero sposata con Mario.

Ci siamo sposati a San Giuseppe e c’era un mucchio di gente: era tornato perfino Gilberto dai militari e abbiamo fatto una gran festa.

Io avevo il velo e i pizzi bianchi e tutte le mie amiche mi dicevano che una sposina così bella non l’avevano mai vista. Non lo sapeva nessuno, ma io ero già in attesa della Giovanna a quel tempo e per fortuna la sarta – che invece con lei mi ero confidata – aveva lavorato benissimo sui fianchi e nemmeno mia mamma si era accorta del mio stato interessante. 

Avevamo mangiato i tortellini e perfino le raviole che erano buonissime con una mostarda che non so, ma una così buona non l’ho più assaggiata. 

Quel vestito era il mio orgoglio e avrei voluto tanto che lo mettesse la Giovanna, il giorno del suo matrimonio, ma la Giovanna non si è mai sposata e quando è stato il turno della Milena, anche lei dice che preferiva convivere senza tutta quella burocrazia.

E così, a un certo punto, a furia di star lì nell’armadio, il vestito mi metteva della gran nostalgia, specie dopo che Mario se ne era andato e così ho preso una scatola bella, una scatola che era servita per farmi un regalo tanti anni prima e glielo avevo piegato dentro.

Con attenzione.

Lo avevo avvolto nella plastica e anche nella carta che non volevo mica che prendesse umidità, laggiù in cantina e lo avevo messo via insieme a qualche baule, i fotoromanzi, la bambola e perfino l’orsacchiotto della Milena, che lei forse se ne era perfino dimenticata. 

Poi c’è stata tutta quell’acqua, una pioggia che sembrava che Dio avesse preso un secchio e io mi sono chiusa in casa, non ci ho voluto pensare nemmeno quando mi hanno detto che il Ravone aveva sfondato in via Andrea Costa, nemmeno quando ho visto che tutta quell’acqua entrava dal portone e sì, forse era arrivata in cantina. 

Un giorno – sarà stata una settimana dopo – il Comune ha mandato il camion con la pompa per tirare su l’acqua e sono arrivati anche una decina di ragazzi con gli stivali, le pale e la musica e mi hanno suonato proprio a me e allora sono uscita e allora mi sono commossa e gli ho offerto il caffè e loro hanno cominciato a spalare. 

Tutti sorridenti, sembravano tanto belli anche se erano tutti sporchi di fango e quando una delle più giovani, avrà avuto a malapena diciotto anni, mi ha chiesto del vestito, che lo avevano trovato nel fango, allora io ho pensato a Mario, ho pensato alle raviole, a quel giorno di un mucchio di tempo fa e mi veniva quasi da piangere perché il vestito era dentro alla plastica ma era tutto rovinato, pieno di fango e umidità. 

E mi hanno detto: “Vuole provare a tenerlo? Forse si può pulire!” e io non so, ero così arrabbiata con il Ravone, con la pioggia, con il tempo che passa che ho detto no, buttate tutto, tanto il sapore di quella mostarda, insieme ai baci di Mario e al segreto che con noi c’era già anche la Giovanna, ecco tutti quei ricordi di quel giorno di giugno del 1960, nessuno me li potrà mai portare via, nemmeno il fango, nemmeno la pioggia, nemmeno le lacrime. 

Grazie a S. che ha voluto raccontarmi un pezzo della storia che le ha raccontato a L. e grazie soprattutto a L. e a tutti i giovani e le giovani che stanno lavorando a Bologna con stivali, guanti e pale.